LA LINGUA DEL SANTO (IT, 2000) diretto da Carlo Mazzacurati. Interpretato da FABRIZIO BENTIVOGLIO, ANTONIO ALBANESE, IVANO MARESCOTTI, ISABELLA FERRARI, MARCO PAOLINI, GIULIO BROGI, TONI BERTORELLI
Ambientata a Padova, è la storia di Antonio, rugbista opportunista, e Willy, ex rappresentante di articoli di lusso, entrambi costretti da una vita di stenti e sfortune a sopravvivere, rubacchiando qua e là quello che si trova, ma la dea bendata sembra non favorirli mai… finché non si presenta l’occasione, quasi per caso, all’interno di una basilica, di rubare una preziosa reliquia preziosamente costruita, la lingua di Sant’Antonio. Il furto va a buon fine, ma ben presto i giornali cominciano a parlare della sparizione dell’oggetto religioso, la polizia si mette ad indagare sulle tracce dei ladri e, peggio ancora, Antonio prova con conseguente ripulsa a vendere le pietruzze d’argento nero incastonate nella reliquia a un gruppo di rivenditori zingari. Da parte sua, Willy ha problemi sentimentali che lo tormentano: ancora innamorato dell’ex moglie Patrizia, che l’ha scaricato dopo diciassette anni di matrimonio per mettersi con Ronchitelli, facoltoso industriale, pensa a come far quadrare i conti col ladrocinio appena commesso, le sue turbe interiori e i nascondigli che sempre più spesso la squinternata coppia maschile deve trovare per non far scovare il tesoro trafugato. Alla fine trovano in Alvaro Maritan, plutocrate veneto, l’uomo giusto per chiedere un riscatto: un miliardo di lire. Ottenutolo, Willy prende la saggia decisione di non abbandonare la laguna veneziana (dove avevano rubato un’imbarcazione per scomparire fra i canneti in fuga dalle forze dell’ordine) e lasciare l’intero malloppo ad Antonio, che parte per la prima vera vacanza della sua vita, mentre l’amico e compagno di ruberie si fa consegnare agli agenti che da tempo inseguivano entrambi. Presentato in concorso al Festival di Venezia 2000, questa divertente, didattica e intelligente commedia ha riscosso un successo di pubblico quasi inesistente, risultando un flop anche agli occhi della critica che l’ha snobbata come una comune vicenda comicarola atta soltanto a strappar risate di compassione per le peripezie tragicomiche di due sfigati qualunque. Invece dietro c’è un profondo lavorio psicologico: il rapporto di amore-odio che intercorre fra un Albanese tenuto abbastanza a briglia stretta e con una razione ben racimolata di battute, e un Bentivoglio in forma smagliante la cui coce narrante è una carta vincente che dona credibilità educativa alla vicenda, nasconde un'amicizia di necessità che porta ambedue ad elaborare strategie di sopravvivenza che aiutano ciascuno di loro a credere nel proprio potenziale, ma anche a farsi una nomea d'onore in un paese dove tutti appaiono appagati e soddisfatti e dove sembra che chiunque abbia raggranellato il suo premio alla lotteria. Non a caso il bar dove Antonio gioca a biliardo è soprattutto il luogo dove preferibilmente riceve i motteggi da chi crede di saperne piu' di lui. La vicenda ha tempi comici rispettati con dignità, evita abilmente i tempi morti riempiendoli con corti discorsi concitati in cui il punto centrale consiste nel decidere sul da farsi, emoziona dalla prima all'ultima sequenza non per compassione per la sorte dei protagonisti, ma per il mantello di aurea spassosità che accompagna lo svolgimento della trama tra la sottrazione furtiva e casuale della reliquia e la sua travagliata riconsegna dopo mille avversità, compresa l'idea genial del razzetto-aquilone scoppiettante su cui i due maldestri e simpatici lestofanti appongono il messaggio per scrivervi sopra i luoghi e i metodi di ricevuta del riscatto. Una recitazione di impegno davvero gradevole e lodevole, con personaggi di contorno tutti azzeccati che magari non stanno quantitativamente a lungo sullo scherno, ma si dipingono un ruolo di cordialità o antipatia che, appunto a seconda deu due casi, supporta o intralcia i piani dei due personaggi fondamentali. Numerosi momenti di poesia, con la voce dalla dizione sporca di Bentivoglio, vissuti con soave trasporto in una Padova alternativamente albeggiante o crepuscolare in cui si coglie l'occasione per riflettere sul matrimonio, il tenore di vita, l'esistenzialismo, il mal di vivere, le questioni di cuore e le soluzioni da battaglia che per forza vanno adottate ogniqualvota si presenta un caso disperato. Ed entrambe le vite di Willy e Antonio sono segnate da una disperazione, che però è definitiva solo in apparenza: messo a segno il colpo della loro vita, continuano certo a vivere i contrasti con cui anche prima, durante un cosiddetto apprendistato deliquenziale, si trovavano ad avere a che fare, possono godersi la libertà di pensiero ed azione che prima era loro negata perché erano intrappolati in una gabbia che conteneva tutti i peggiori elementi per isolare un uomo fino a deprimerlo: moralismo, essere malvisto dalla gente, caricature ridicole e involontarie, delusioni amorose, senso di fallimento e infruttuositàò da ogni prospettiva. Aperto e chiuso da una versione di Guantanamera cantata in lingua originale (spagnolo) che ha luogo in una sagrestia col coro infantile che intona amabilmente le note dell'immortale canto popolare cubano, dando un senso di principio ed epilogo ad una storia originale (scritta dal regista con Franco Bernini, Umberto Contarello e Marco Pettenello) che ha anche i due pregi di non prendersi mai troppo sul serio e di puntare sulla simpatia quasi automatica che sopravviene per due truffatori di mezza tacca che però riescono ad emergere e ad individuare con la giusta lontananza la dimensione di cui tanto necessitavano. Indubbiamente la migliore pellicola dei primi anni 2000 del compianto Mazzacurati (1956-2014), che troppo presto ci ha lasciati e che senz'altro avrebbe potuto donare molte altre commedie intellettuali, vivaci e garbate sui sotterfugi tipicamente italiani che popolano il cinema nostrano da quando la commedia all'italiana nello stile piu' classico ha profuso il suo bacio d'addio al grande schermo.
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