Il partigiano Johnny

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Roberto Nepoti

La Repubblica

Era parecchio tempo che Guido Chiesa progettava di portare sullo schermo il romanzo semiautobiografico di Beppe Fenoglio, pubblicato postumo nel 1978. Quando la possibilità si è concretizzata, il quarantenne regista/sceneggiatore ha dovuto porsi una domanda difficile: come raccontare la Resistenza oggi, in un clima culturale in cui le idee, la Storia, la moralità paiono diventati oggetti d'antiquariato? Chiesa ha trovato la risposta giusta. Dal punto di vista della scrittura drammaturgica, Il partigiano Johnny adotta uno stile laconico e privo di enfasi; vi corrispondono immagini quasi scabre, colorate con una tavolozza neutra e omogenea. La volontà antideclamatoria è tanto più lodevole perché quella di Johnny è una storia tutta impastata di dolore. Dolore delle scelte difficili: all'indomani dell'8 settembre uno studente di letteratura inglese diserta, si nasconde nelle colline intorno alla sua Alba, poi prende la via delle Langhe e si unisce a un gruppo di partigiani comunisti. Dolore di una guerra combattuta tra freddo, pioggia e stenti, dove si attacca e si è attaccati di sorpresa, bisogna fuggire e nascondersi, si conquista una città sapendo di perderla subito dopo. Chiunque può essere un amico o un traditore: e dall'alternativa dipende la vita del partigiano. Tra l'autunno 1943 e il febbraio 1945, scandito per capitolistagioni, il film di Chiesa intende soprattutto mettere in scena questa sofferenza, la quotidianità di una guerra sporca e cattiva come ogni guerra, ma ancor più precaria e confusa, in cui i cadaveri restano abbandonati nei campi o nelle strade dei villaggi e ogni azione può scatenare una rappresaglia sanguinosa sulla popolazione civile. Passato a unaformazione di ex militari che sarà decimata, Johnny si ritrova solo, a cercare di sopravvivere tra fame e gelo al durissimo inverno del 1944. Proprio quando potrebbe cadere preda della disperazione e sentir vacillare di più la propria motivazione ideale, vissuta finora con la titubanza dell'intellettuale, il giovane ritrova più forte la ragione della scelta fatta, rinuncia alla rinuncia, giunge a negarsi ogni residuo istinto di autoconservazione. Per misurare la coerenza antiretorica di Chiesa basterebbe paragonare il suo film con La tregua, l'adattamento del romanzo di Primo Levi diretto tre anni fa da Francesco Rosi. I modelli del regista torinese sono altri: il cinema neorealista, e in particolare l'ultimo episodio di Paisà, da un lato, dall'altro La sottile linea rossa di Terrence Malick. L'unica cosa che stona, in tutto ciò, è a carico della colonna sonora, con la musica invadente di Alexander Balanescu e la voce overscreen che narra o commenta in inglese. Invece le scene di guerra risultano assolutamente convincenti, proprio per l'assenza di epicità e l'inesorabile ripetitività con cui sono rappresentate. L'ambientazione "on location" sui luoghi dell'azione è ineccepibile. Ottima l'interpretazione di Stefano Dionisi, adeguato e ben diretto tutto il cast.
Da La Repubblica, 18 novembre 2000


di Roberto Nepoti, 18 novembre 2000

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