Mifune - Dogma 3

Un film di Søren Kragh-Jacobsen. Con Anders W. Berthelsen, Iben Hjejle, Jesper Asholt, Emil Tarding, Sofie Gråbøl Titolo originale Mifunes Sidste Sang. Commedia, durata 95 min. - Danimarca 1999.
   
   
   

Roberto Nepoti

La Repubblica

Intanto va spiegato il titolo. Mifune - Dogma 3 del danese Soren Kragh-Jacobsen contiene un doppio riferimento: Mifune è Toshiro Mifune, l'attore-feticcio di Akira Kurosawa, un ricordo cinematografico condiviso da due personaggi del film; Dogma 3 si riferisce al terzo dei lungometraggi realizzati secondo le regole di Dogma 95, il manifesto lanciato da Lars von Trier (Idioti) e Thomas Vinterberg (Festen) per ridare naturalezza e credibilità al cinema. Secondo quanto lui stesso ha dichiarato, Kragh-Jacobsen era giusto alla ricerca della spontaneità perduta e l'invito dei connazionali a realizzare un'opera secondo i dogmi di Dogma gli è piovuto come il cacio sui maccheroni. Non soltanto il suo è un film da "pentito" di questioni tecnico-produttive e manierismi linguistici, ma racconta anche una storia di ravvedimento. Kresten (Anders W.Berthelsen) fa lo yuppie a Copenhagen, dove si è procurato una brillante carriera e un ottimo matrimonio. Quando arriva la notizia della morte di suo padre, di cui aveva nascosto l'esistenza a tutti, il giovane deve tornare alla vecchia fattoria delle sue origini e occuparsi della sorte del fratello handicappato. Vorrebbe risolvere il problema delegandolo a una governante, Livia (Iben Hjejle); ma le cose non vanno affatto così: sarà proprio l'attrazione per la donna a farlo restare nella fattoria. Vincitore del Premio Speciale della Giuria a Berlino, Mifune. Dogma 3 conferma che il manifesto di Von Trier ha effetti piuttosto benefici sul cinema. Non che sia un film perfetto, intendiamoci: anzi, è decisamente discontinuo per come alterna momenti ispirati con altri (in particolare la storia d'amore tra il protagonista e la governante) più risaputi e ovvi. Però la sobrietà della messa in scena ha effetti benefici e la recitazione degli attori risulta molto spontanea. Tanto più che il regista, meno genialoide dei colleghi, non usa la cinepresa ubriaca di Von Trier e si concede una fotografia meno sgranata di quella di Vinterberg. Nè dispiace la morale della favola, una favola moderna e crudele che non chiude la porta alla speranza. Perché il film di Kragh-Jacobsen è una parabola sui guasti dell'ambizione, che racconta i compromessi e le rinunce legati alla ricerca del successo personale senza nascondersi, però, neppure quanto può costare la decisione di rinunciarvi.
Da La Repubblica, 21 novembre 1999


di Roberto Nepoti, 21 novembre 1999

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