Herzog prende commiato per l’ultima volta nostalgicamente dall’amico nemico, protagonista di cinque dei suoi film, tributandogli un omaggio privo di retorica o di quella falsa ossequiosità che di solito si riserva ai morti, specialmente se sono stati dei grandi artisti. Il risultato è un ritratto impietoso ed insieme appassionato e commovente di Kinski, sempre debordante, istrionico, forse folle, nelle immagini iniziali ripreso mentre inveisce contro il pubblico accorso ad una sua piece teatrale alla fine forse della rappresentazione di un Gesù non convenzionale.
E’ la confessione di un amore odio ai limiti della passionalità erotica, dove si mescola al desiderio del possesso e del dominio totale dell’altro il proposito omicidiario, un connubio artistico straordinario di Eros e Thanatos che si sublima nella creazione filmica.
Il regista e l’attore, chi è che dirige il gioco, chi si piega al ruolo passivo dell’esecutore di ordini, chi padroneggia l’altro soggiogandolo con il proprio carisma. Herzog e Kinski, il Logos ed il Pathos dell’Arte, che si combattono avvinghiandosi stretti in un abbraccio che sarebbe potuto essere mortale ed invece ha prodotto delle opere immortali. Ci siamo scontrati nella battaglia della vita dirà Kinski, non era quindi il set di Aguirre, furore di Dio o di Fitzcarraldo l’agone dove si misuravano le forze immani dei due eroi dai connotati epici, figure emblematiche della moderna mitologia del cinema, a metà strada tra l’Ettore e Achille omerici e l’Eurialo e Niso virgiliani, bensì la vita stessa, che per un vero artista sono la medesima cosa.
Le sfuriate improvvise ed interminabili di Kinski, scatenate da un nonnulla, sotto lo sguardo attonito degli indios ammutoliti, sui set dell’Amazzonia, la sciabola di scena calata con violenza sul capo di una comparsa, fortunatamente coperto da un elmo, ed il primo incontro nella vecchia casa di Herzog che compare all’inizio del film, visitata dal regista nella rievocazione della propria adolescenza ed il ricordo di un giovane Kinski, già invasato e posseduto dal sacro fuoco dell’arte, la memoria di un uomo gentile nelle parole dell’attrice Eva Mattes, che lo affiancò nel bellissimo Woyzeck, tutto si ricompone armoniosamente, pacificandosi poeticamente, nell’ultima sequenza, nella quale il grande attore è ripreso mentre gioca con una farfalla che sembra non volerlo più abbandonare.
La tenerezza di un uomo violento e distruttivo che si mostra indifeso come un bambino di fronte alla telecamera, stupito e felice dal tocco leggero dell’essere più fragile e bello della terra, è l’ultima immagine dell’attore, quella che Herzog vuole serbare nel proprio cuore e tramandare agli altri, consegnata per sempre alla storia del cinema, attraverso il mezzo che li ha uniti e divisi tante volte nella vita o nell’arte, il che è lo stesso.
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