East is East |
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Un film di Damien O'Donnell.
Con Om Puri, Linda Bassett, Jordan Routledge, Archie Panjabi, Jimi Mistry
Commedia,
durata 96 min.
- Gran Bretagna 1999.
MYMONETRO
East is East
valutazione media:
3,77
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Quando lo straniero siede alla nostra tavoladi francesca meneghettiFeedback: 7591 | altri commenti e recensioni di francesca meneghetti |
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sabato 9 marzo 2013 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Il tema delle frontiere culturali e religiose ha assunto una rilevanza particolare nel dibattito culturale degli ultimi vent’anni. Fino a che gli italiani erano emigranti e l’immigrazione un fenomeno di nicchia, impercettibile, si viveva all’interno di una bolla etnocentrica: come gli uomini prima di Copernico. Ma, nel giro di trent’anni, da una dimensione di vita delimitata da piccoli orizzonti, si è passati ad una società multietnica, che impone la convivenza con persone di ogni provenienza, cultura, religione: una situazione per altro sperimentata molto tempo prima da altri paesi europei, come l’Inghilterra dei primi anni ’70, dove è ambientato il film East is east, del regista irlandese (non è un caso) Damien O’Donnel. A differenza del confine, paragonabile a una linea netta, come il solco che il vomere traccia sul suolo, la frontiera separa (e unisce) spazi fisici e mentali, contrappone persone e ideologie, ma in modo più sfrangiato e dai bordi irregolari, attraverso liberi giochi d’incastro di singoli pezzi e di ricomposizione. Le persone possono vivere a ridosso della frontiera, o esserne attraversate, come il caso di George Khan, pakistano, padre-padrone nel film, giunto in Inghilterra del 1937, e poco dopo sposato con una donna inglese (nonostante una prima moglie pakistana). Il regista lo coglie nel 1971, quando è in corso il conflitto tra Pakistan e India, dopo venticinque anni di matrimonio, sei figli maschi e una femmina. Appare un uomo intenzionato a difendere le tradizioni pakistane e musulmane con spirito fondamentalista, ma la contraddizione è in lui, prima ancora che nei suoi figli: a partire dal nome anglicizzato, dal matrimonio con Ella (una splendida Linda Bassett), accanita fumatrice, e madre affettuosa, per arrivare alla dimenticanza delle regole (impone alla figlia, per una cerimonia, non i pantaloni ma un sari, che invece è tipico dell’odiata cultura induista). Consapevole di essersi allontanato dalle radici, sofferente di solitudine per la sua diversità, cerca di dimostrare rispettabilità ai paki della moschea imponendo ai figli costumi folkloristici e scelte di vita non condivise. Se il padre si sente un pesce fuor d’acqua, i figli si sentono prevalentemente inglesi, tranne uno. E tuttavia, al di là dell’identità percepita, restano oggettivamente, finché dipendono dalla famiglia, una cross generation: un crocevia di culture, lingue, opinioni religiose e valori diversi. I temi trattati dal film sono dunque molto seri e ancora attuali. Non è escluso che il regista abbia voluto alludere, attraverso questa copertura orientale, al tema della frontiera che contrapponeva cattolici dell’IRA e protestanti nel Regno Unito proprio negli stessi anni (nel gennaio del 1972 cade il Bloody Sunday). E tuttavia il film, pur attraversando passaggi drammatici, è godibilissimo, allegro, ricco di battute intelligenti e spiritose. E’ forse il primo ad aver inaugurato un genere (v. Sognando Beckham, e Il mio grasso grosso matrimonio greco, per esempio). Per questa leggerezza, che attenua lo spessore dei contenuti, ed anche per il carattere aperto della storia (come andrà a finire il conflitto padre-figli ovvero tradizione-modernità?) questo film si presta bene a essere proiettato e discusso in un’aula scolastica o in un cineforum, anche se ormai “datato”.
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