Film caustico, coraggioso e straordinario, che dipinge in maniera cinica e spietata la media borghesia americana, così impegnata nella ricerca affannosa della felicità da essere sempre più infelice e sola.
La storia ruota intorno a tre sorelle, tutte immancabilmente frustrate (anche se due di loro si ritengono realizzate), e al mondo apparentemente normale in cui si muovono, popolato da personaggi inquietanti e deviati, che combattono quotidianamente con una solitudine desolante e irrimediabile, in cui le pubbliche virtù sono bilanciate da innominabili vizi privati.
Joy, la sorella in apparenza più sfortunata, considerata una fallita anche dalle altre due, passa da una relazione all’altra, riuscendo tra l’altro a farsi sedurre e poi rapinare da un balordo; Trish, moglie e madre a prima vista realizzata, in realtà è sposata, senza saperlo, ad un pedofilo; Helen (una splendida quanto insopportabile Lara Flynn Boyle) è una scrittrice di successo, bellissima e corteggiatissima, tacitamente invidiata dalle sorelle, ma di fatto profondamente sola.
Attorno a loro gravita una serie di personaggi a dir poco singolari: Allen, un emarginato inibito e complessato, incapace di relazionarsi con l’altro sesso se non per telefono in forma anonima, Kristina, una vicina di casa che ha subito uno stupro e lo racconta al ristorante, tra una portata e l’altra, aggiungendo con disarmante sincerità di aver ucciso e fatto a pezzi lo stupratore, e Bill, il marito pedofilo di Trish, che approfitta di una serata in famiglia per molestare un amichetto del figlio, ospite per la notte. Completano il quadro di desolante sconforto i genitori delle tre sorelle, che stanno per divorziare, ormai disillusi e incapaci di provare emozioni.
A dispetto del titolo quindi, il film parla di insoddisfazione e infelicità, ma lo fa con tono leggero, diluendo le situazioni più drammatiche con un umorismo nero che se non fa mai ridere (perché ci si sentirebbe in colpa), impedisce di piombare nella disperazione. In qualche modo ricorda l’Altman di America oggi.
Emblematica la scena in cui Bill si prepara ad abusare del piccolo ospite, agitandosi in modo così impacciato e goffo da risultare ridicolo, in netto contrasto con l’azione abietta che sta per compiere, e che il regista, per fortuna, ci risparmia.
Non è quindi un dramma, ma sicuramente neppure una commedia.
Film duro e difficile, disturbante per il modo brutale con cui affronta certe tematiche, è volutamente provocatorio, quasi che il regista (e sceneggiatore) voglia mettere lo spettatore di fronte ad una realtà che fatica ad accettare. Va apprezzato per il coraggio dei dialoghi e per la rappresentazione cruda di certe situazioni, anche se questo è proprio l’aspetto che gli ha attirato più critiche, ma soprattutto per l’interpretazione davvero superba degli attori, su tutti Seymour Hoffman in stato di grazia e un coraggioso e bravissimo Dylan Baker: credo che pochi avrebbero saputo affrontare con la stessa sensibilità il dialogo finale, nel quale spiega al figlio la propria perversione, rispondendo alle sue domande incalzanti. E probabilmente pochi altri sceneggiatori avrebbero avuto l’ardire di scrivere un dialogo così sconvolgente.
Da vedere dopo aver messo a letto i bambini.
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