Cube - Il cubo

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Un film di Vincenzo Natali. Con David Hewlett, Maurice Dean Wint, Nicole deBoer, Nicky Guadagni, Wayne Robson.
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Titolo originale Cube. Thriller, durata 0 min. - Canada 1998. MYMONETRO Cube - Il cubo * * * - - valutazione media: 3,19 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

No Valutazione 1 stelle su cinque

di Mydavies


Feedback: 207 | altri commenti e recensioni di Mydavies
giovedì 29 maggio 2014


Il film narra di un gruppetto di sfortunati individui che, un bel giorno, si risvegliano dentro una stanza cubica di 25 metri quadri, dotata di un portello per ogni lato che conduce ad altri cubi della medesima grandezza. Alcuni di essi celano terribili trappole mortali, a causa delle quali, ogni tanto, qualcuno ci lascia le penne. Lo scopo dei malcapitati consiste dunque nel tentativo di uscire da questa orrenda prigione, interrogandosi nel frattempo oziosamente sul perché qualcuno (il governo? Un riccone psicopatico?? Gli alieni???) li abbia rinchiusi lì dentro. La pellicola si propone fra l'altro, in modo tutt'altro che implicito, come una metafora dell'esistenza, un'indagine sul perché viviamo, lavoriamo e facciamo quello che facciamo: “c'è una ragione, un senso, o siamo attorniati dal nulla più assoluto?”, sembrano domandarsi gli insopportabili personaggi attraverso inverosimili chiacchierate intervallate da mobilitazioni da una stanza all'altra e spappolamenti vari. “Boh?” pare la convincente risposta dell'abile team di sceneggiatori, che scelgono in conclusione di far svanire il tizio autistico abile coi calcoli, l'unico che riesce a guadagnare la via d'uscita, in un muro abbagliante di luce bianca, al di là del quale forse c'è il mondo esterno, forse un negozio di lampade abbronzanti, o magari una squadra di omini verdi in camici bianchi intenti a trafficare con monitor e provette. Ops, spero di non aver rovinato a nessuno il finale.

Uno dei punti più deboli della storia riguarda secondo me, si sarà capito, i dialoghi. Un film ambientato in una sola stanza (ovviamente gli scenografi non hanno costruito migliaia di cubi, ma uno solo illuminato di volta in volta con colori diversi) richiede una costruzione impeccabile dei personaggi e delle dinamiche psicologiche, il che si esprime necessariamente, dato che i prigionieri non fanno sesso fra di loro (e non possono nemmeno picchiarsi per tutto il tempo), per l'appunto attraverso l'uso della parola. Ora, proviamo a fare una panoramica delle figure che affollano la claustrofobica scena.

 

Il leader inizialmente indiscusso è Quentin, un “americanissimo” poliziotto di colore. Diciamo pure nero. Un grande e grosso nero che ha cuore unicamente i suoi tre figli e vuole a tutti i costi uscire dall'infernale cubo per poterli riabbracciare. Muscoloso, motivato, maschio. Non sa fare niente se non spronare gli altri in modo più o meno gentile, e per questo gli tocca, per buona parte del film, la qualifica di “capo”. A un certo punto, forse per una crisi d'astinenza da steroidi, dà di matto, uccide una compagna (nella sua situazione l'avrei fatto anch'io) e picchia un ingegnere nichilista, tirando finalmente fuori le palle, e per questo venendo bandito dal gruppetto di noiosi.

Sua alleata in un primo momento, vittima in un secondo (l'imprevedibilità della vita!) è invece la pallida Holloway, medico generico in preda ad estenuanti paranoie complottiste. È lei a chiedersi più spesso chi sia stato l'artefice del cubo, perché abbia fatto quel che ha fatto (qualunque cosa sia), perché abbia scelto proprio loro, perché perché perché. Domande senza risposta, che servono solo a sciorinare a buon mercato i pomposi interrogativi esistenziali degli autori e a far montare la rabbia di Quentin, che infatti alla fine la ammazza, facendola precipitare in un interstizio oscuro che si apre fra la parete di cubicoli ed il rivestimento metallico del “grande Cubo”. Se là fuori esiste un Dio, questa svolta dimostra che è Giusto.

Veniamo a Rennes. Su di lui non c'è molto da dire, perché muore quasi subito. È un vecchio pluri-evaso che insegna alla congrega di esauriti come accertarsi che nell'altra stanza non vi siano trappole: lanciandovi una scarpa tenuta legata al laccio, così da poterla riprendere. Unico personaggio interessante (infatti il regista lo leva presto di mezzo), cade vittima di uno schizzo di acido corrosivo dopo aver pronunciato la sua ultima, epica, battuta: “il vostro vero nemico è dentro di voi” e poi “merde!” (è francese).

Worth, che all'inizio si spaccia per semplice impiegato ma che invece si scoprirà (… colpo di scena!) aver partecipato alla progettazione del rivestimento esterno del Cubo, è un depresso che ha in tasca la grande risposta, quella che la smunta Holloway va ossessivamente cercando. Lui sa tutto (il che lo rende triste), perché passa le giornate a svolgere noiosi incarichi d'ufficio su commissione e le serate a guardare dvd porno, cioè conduce un'esistenza assolutamente banale, come il male di Hannah Arendt (mi si perdoni per averla scomodata in questa sede); da questa postazione privilegiata di “omino ordinario”, l'inconsolabile Worth ha afferrato, tramite un processo di dolorosa autocoscienza, la tragica verità, e cioè che, in fondo in fondo (indovina un po'?), nulla ha senso: qualcuno commissiona ad altri un lavoro, questi lo sbriga, il lavoro magari fa del male ad altri, magari no, chi se ne frega, a ognuno interessa solo la propria sopravvivenza; la realtà è troppo complicata, non c'è modo di capire altro. Nichilismo e individualismo sono le sue armi concettuali più affilate, con le quali sgomina in qualche battuta le ingenue pretese del medico e del poliziotto che una risposta ci sia. Non si suicida e non si sa perché (il buon Quentin glielo fa notare) ma è noto che il nichilismo casca spesso in questa contraddizione, dalla notte dei tempi. Fortuna ch'è arrivato Cube, nel 1998, a ricordarcelo.

Leaven è la gnocca del gruppo, che non poteva mancare. Non è in realtà tanto gnocca, ma ha quel fascino minuto e gentile, leggermente intellettualoide e candidamente malandrino. È anche una studentessa di matematica. Coi suoi occhiali rotti decifra infatti i numeri di serie dei cubicoli, guidando i tesissimi compagni in un percorso circolare che li riporta al punto di partenza, per poi scoprire che esistono chiavi di lettura più efficaci. Cioè, all'inizio sembra che si debbano evitare le stanze i cui codici annoverano numeri primi, poi pare che questi numeri indichino anche delle coordinate cartesiane, infine si scopre che c'entrano addirittura le permutazioni. Sinceramente non ci ho capito niente, ma non importa. Tanto cercare di comprendere non ha senso, come dice Worth.

Chi è rimasto? Ah già, Kazan, il Rain man dei poveri. Salta fuori in un certo momento da una stanza blu. Ha una qualche turba psicologica non meglio definita (“credo sia un ritardato mentale”, è la competente diagnosi della dottoressa), non gli piace il colore verde e ha un culo incredibile. Col suo simpatico tic alla mano e le sue adorabili frasi sconnesse, intenerisce subito l'animo da crocerossina di Holloway, che lo prende sotto la sua ala protettiva difendendolo dal rude Quentin, che tenta di abbandonarlo ad ogni piè sospinto. Si svelerà un genio della matematica, in quanto dimostrerà di essere l'unico in grado di calcolare a mente le permutazioni (nonché il solo, a parte Leaven, a capire che cavolo siano).

La squadra è al completo. Non ho menzionato Alderson, il primo poveretto a (s)comparire, del quale viene fra l'altro inquadrato in dettaglio, appena dopo i titoli di testa, un emblematico disegno reticolare impresso sulla retina... del resto viene fatto a fette da una griglia metallica al minuto 2.50, quindi pazienza.

 

Parlavamo dei dialoghi. Di come un film ambientato in una stanza sia molto difficile da scrivere, a meno di non avere la penna di Tarantino. Mi piacerebbe riportarne uno, a mo' di esempio, giusto per rendere l'idea:

 

Fra parentesi, Mymovies cita “un'ora dura quanto dico io”; poteva essere pronunciata da Chuck Norris dopo aver disinnescato una bomba a forza di cazzotti, e invece la spara Quentin. Effettivamente è la battuta migliore del film.

 

Quentin: «chi è che ricorda com'è finito qui dentro?»

Holloway: «peperoni! Stavo cenando. Peperoni, formaggio e patate, volevo altro formaggio, sono andata al frigorifero e... non so altro.»

Quentin: «tu? Leaven!»

Leaven: «mi ero messa a letto, e...»

Quentin: «e tu, invece?»

Worth: «mi sono svegliato qui...»

Holloway: «sì, a notte fonda. Come in Cile, arrivano sempre in piena notte.»

Leaven: «chi?»

Holloway: «solo chi governa può costruire una cosa tanto orrenda.»

Quentin: «chi governa non c'entra.»

Holloway: «e allora chi?»

Quentin: «non lo so...»

Holloway: «... alieni...»

 

L'ultima parola viene pronunciata in un sussurro spaurito. Non si capisce se a mancare d'ingegno siano il personaggio oppure gli sceneggiatori, che vorrebbero magari realmente insinuare il sospetto che gli invisibili cattivi della storia possano essere gli alieni. Trovata che risulta ridicola in ogni caso: se si tratta solo della convinzione del personaggio, è davvero credibile che la prima cosa che un medico ritrovatosi imprigionato in una stanza pensi sia, nel giro di pochi secondi, di essere vittima del governo e poi di essere stata rapita dagli alieni? Le due deduzioni paiono illogiche e in contrasto, non contando il fatto che un simile complottismo paranoico non si addice molto a una donna dotata di un livello culturale e intellettivo (non dimentichiamoci che si tratta di un medico) suppostamente pari al suo. Se invece la battuta è semplicemente servita agli scrittori per esprimere una loro idea, di che idea si tratta? Si vuole far riflettere sul fatto che la nostra quotidianità potrebbe essere sul serio influenzata dalle manovre aliene? Oppure gli alieni sono una metafora, o meglio una metafora di una metafora? Il film è metafora della vita e gli alieni, all'interno di questa metafora, rappresentano magari qualcos'altro. Ma cosa? Forse la pura e semplice mancanza di idee.

Si potrebbero riportare molti altri esempi. Il problema fondamentale, al di là delle perplessità tematiche, è l'incapacità di far trapelare i sentimenti, le emozioni e i pensieri dei personaggi in modo implicito anziché esplicito. Ognuno resta incollato al proprio ruolo e dice cose che sono semplicemente “maschie, incazzate e motivanti” nel caso del poliziotto, “mediche e complottiste” per il medico, “matematiche o impaurite” per la studentessa, “senza senso” per il ritardato, “nichiliste” per l'impiegato. Nessuno è in grado di scollarsi la sua etichetta, tutti dicono ciò si ci sia aspetta sia detto da loro.

La forza del film sta dunque nella trama, che effettivamente cattura. Nonostante si sia continuamente sbalzati fuori dalla pellicola per il fastidioso modo di esprimersi delle macchiette, viene voglia di scoprire come va a finire la storia. Cosa c'è fuori dal cubo? Gli interrogativi dei personaggi, nonostante siano espressi male, si trasmettono in effetti anche all'osservatore: chi ha preparato questa enorme trappola? Perché? Il che riporta banalmente alle grandi domande archetipiche che dal principio aleggiano nella storia della filosofia. In buona sostanza, lo spettatore è disposto, alla fin fine, a soffrire un po', seguendo le gesta di personaggi antipatici e a tratti improbabili, ma spera tuttavia di riuscire a capire qualcosa, qualunque cosa, intorno al senso di ciò che vede.

Ovviamente non c'è risposta. Come non c'era intelligenza nella costruzione delle dinamiche psicologiche, c'era da aspettarsi che ve ne fosse ancor meno nell'allestimento generale della narrazione, che si riduce al vagolare di cinque spiantati all'interno di enorme cubo. Tutto qui. Cosa c'è fuori? Uno spazio bianco, un mare di luce, insomma nulla, nulla di nulla.

Ogni opera artistica sfuma nel nulla. L'ultima pagina bianca di un romanzo, la dissolvenza a nero di un film, la cornice di un quadro, i limiti della pagina di un fumetto. Ogni lavoro creativo (ma non solo) è un ritaglio di un pezzetto di realtà disordinata e caotica, un tentativo di fare ordine, di offrire un senso, o magari anche di generare un nuovo disordine, purché sia diverso, originale. Quando si sceglie di rappresentare il nulla stesso, l'assenza di senso, deve esserci una valida ragione. Non si può rappresentare un concetto astratto come quello di “confine” o di “mancanza” senza una forte padronanza intellettuale e, soprattutto, una notevole sensibilità e delicatezza. E gli autori del film non dimostrano né l'una né l'altra. Un principio fondamentale della semiotica è che il cervello tende sempre, di fronte a una massa di dati disgregati, ad unirli in un unicum dotato di senso. Si potrebbe essere tentati di leggere qualcosa in quella luce bianca in cui, alla fine, s'immerge Kazan.

Ma, se si resiste anche solo per un secondo a questa tentazione, si può osservare il Cubo scoppiare silenziosamente, come un'immensa bolla di sapone.

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