Il sapore della ciliegia

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Un film di Abbas Kiarostami. Con Homayoun Ershadi, Abdol-Hossein Bagheri, Safar-Ali Moradi, Abdolrahman Bagheri.
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Titolo originale Ta'm e guilass. Drammatico, durata 98 min. - Iran 1997. - Sony Pictures Italia uscita venerdì 19 settembre 1997. MYMONETRO Il sapore della ciliegia * * * - - valutazione media: 3,36 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

ambiguamente teso tra verità e finzione Valutazione 2 stelle su cinque

di carloalberto


Feedback: 51029 | altri commenti e recensioni di carloalberto
venerdì 5 novembre 2021

 Nel 1977 Nanni Loy realizzava per la RAI “Viaggio in seconda classe”. Mediante una telecamera nascosta in un vagone ferroviario ed un attore che provocava le reazioni degli ignari viaggiatori, Loy raccolse una serie di ritratti spontanei di gente comune, offrendo uno spaccato veritiero della società italiana degli anni ’70. Vent’anni dopo, Kiarostami, con “Il sapore della ciliegia”, pur con tutt’altro stile, utilizzando attori non professionisti che interpretano sé stessi o presi dalla strada alla maniera del neorealismo italiano, ne inserisce le storie di vita nella finzione di un racconto drammatico esistenziale di un uomo che progetta il suicidio e va in cerca di chi, dietro compenso, lo ricoprirà nella buca che egli stesso si è scavato sotto un albero.
Il timido ed impacciato soldato di leva originario del Kurdistan, l’umile raccoglitore di plastica che lavora nelle discariche a cielo aperto, il guardiano del cantiere ed il suo amico seminarista, entrambi immigrati dall’Afghanistan per sfuggire alla guerra, questi sono i veri protagonisti del film, come risulta chiaro dal finale metafilmico, che lascia in sospeso la storia dell’aspirante suicida per riprendere un gruppetto di soldati, in un momento di pausa dalla marcia, mentre scherzano e ridono tra di loro accanto alla troupe di Kiarostami e all’attore che è appena uscito dalla fossa.
Il documentario-intervista sarebbe stato un mezzo più diretto ed idoneo allo scopo e sin dall’inizio più onesto verso lo spettatore, il cui approccio sarebbe stato diverso e forse gli avrebbe evitato di domandarsi per circa due ore, trascorse in auto con il protagonista, nel suo girovagare per le strade polverose e sterrate della periferia di Teheran, del perché volesse metter fine ai suoi giorni.
Si ha l’impressione che il plot pur essendo solo un pretesto distragga dalla dura realtà delle immagini di quella povera gente. In un film di solito ci si concentra sulla storia principale e si empatizza con la vicenda umana del protagonista e non con quella delle comparse. In questo caso dovrebbe accadere il contrario.
Rimane il dubbio se Kiarostami abbia voluto stimolare ad una riflessione sul rapporto tra società civile e cinema, sottolineando come il secondo abbia un senso soltanto se in funzione servente rispetto alla prima, o se, invece, il suo obiettivo sia stato quello di cogliere la drammaticità delle misere condizioni di vita del suo popolo sfuggendo alla probabile censura del regime islamico dell'epoca.
Il monologo del vecchio tecnico, che inneggia alla bellezze della vita enumerando i doni che Madre Natura provvida  fa agli uomini per conto di Dio, anzichè essere un momento altamente poetico risulta banalmente retorico e convenzionale, in linea con i dettami religiosi dello stato islamico che condanna i suicidi alle pene dell’inferno.
La sensazione è che Kiarostami sia rimasto ambiguamente diviso tra l’aspirazione a fare cinema verità, denunciando miseria e povertà nel paese degli ayatollah, e l’inconscio desiderio di compiacere il regime, fornendo così, inconsapevolmente, un’immagine falsata del suo popolo, attraverso un campionario umano edulcorato, composto inverosimilmente tutto da bravi ragazzi onesti  e timorati di Dio, lavoratori indefessi e responsabili e vecchietti saggi e cerimoniosi.
 

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