Irene Bignardi
La Repubblica
La maturità è tutto, si direbbe. Come nel caso di Diane Keaton, che dopo vent’anni passati in una incerta posizione di ninfa egeria del cinema intelligente - Woody Allen, Coppola, Warren Beatty - alternato a una non preclara ricerca di ruoli spesso sbagliati in film di poco interesse, diventa a cinquant’anni la regista di un”opera prima” delicata e struggente, tenera e nostalgica, ma con una dose massiccia di quello che in America si chiama (latinamente) “stamina”: temperamento, nerbo, forza intellettuale o vigore che dir si voglia. Tanto più interessante perché la nuda struttura della storia - una madre sta morendo, suo figlio ragazzino deve imparare a crescere da solo - si presterebbe a una versione mélo che invece Diane Keaton schiva attraverso l’eccentricità - ma senza rinunciare a commuoverci.
Tratto da un romanzo che si direbbe autobiografico di Franz Lidz e scritto da uno sceneggiatore a cui piacciono le storie di marginali (Richard LaGravanese, autore tra l’altro di La leggenda del Re Pescatore, 1991), Eroi di tutti i giorni è stato presentato a “Un certain regard” di Cannes 1995, e racconta come Stephen Lidz (Nathan Watt), meno che adolescente, sia costretto ad assistere senza poter far nulla allo sgretolarsi del suo piccolo mondo: sua madre - Andie McDowell - si va spegnendo dolcemente e fieramente, e suo padre - un meraviglioso John Turturro che non ha paura della debolezza femminile delle lacrime -nasconde il suo dolore dietro la freddezza dei gesti e le invenzioni balzane in cui esercita la sua intelligenza.
Per trovare attenzione e protezione in questo frangente così difficile, Stephen cerca rifugio presso i suoi zii (Michael Richards e Maury Chaykin), due eccentrici “radical” che collezionano come ricordi della loro vita le cose più strane - dai globi con la neve alle decorazioni nuziali a tremilacinquecento palle di gomma -, che gli fanno riscoprire un ebraismo attutito dal laicismo di casa, e vivono secondo un codice di comportamento balzano e senza regole. Un codice che insegna al piccolo Stephen il gusto per la libertà e il non allineamento e grazie al quale forse troverà la forza per sopravvivere al lutto.
Diane Keaton, che rivela in questo suo primo film per il cinema un grande gusto e una grande professionalità, ambienta la sua storia a New York, in un momento cruciale della storia americana, gli anni sessanta, quando sembrava che tutto potesse cambiare (e in parte è successo). E con una punta di cinismo si potrebbe guardare alla dolorosa malattia e alla morte della madre amatissima che lascia al figlio il diritto di andare a crescere altrove come a una metafora della necessità di liberarsi dalla tradizione e dalla protezione per poter diventare uomini nella direzione libera e anticonformista suggerita dal film: su cui si sente risuonare ancora una volta 1 Internazionale, inno - forse - delle illusioni perdute, ma anche della speranza nell’utopia della libertà.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996