Irene Bignardi
La Repubblica
La prima battuta è “Stronzo”. La seconda “Vaffanculo”. La terza l’ho annotata in maniera incomprensibile, ma non è di diverso tenore. A pronunciarle con tono di profondo schifo è Rose McGowan, parrucca nera con frangia, boccona rossa come se ne trovano solo oggigiorno, dal profondo rosso di una discoteca dove si annoia con il suo boyfriend (James Duval, che sembra il fratellino un po’ tonto di Keanu Reeves e ha anche lui una battuta quanto meno originale per definire un momento di depressione: “Mi sento come un criceto nel culo di Richard Gere”...).
Il tono di Doom Generation è subito stabilito, anche se il linguaggio finirà per sembrare soft di fronte alla durezza di quello che si vede nel corso del viaggio. I due (ribattezzati nel film Amy Blue e Jordan White) compiono assieme a Xavier Red detto X (Jonathan Schaech) un viaggio che sembra la versione adolescenziale di quello di Natural Born Killers.
Un viaggio in molti sensi, perché la fanciulla è sempre “fatta”, e ciò l’aiuta non poco a scoprire che se con il suo amichetto il sesso non è proprio travolgente, diventa niente male con un piccolo aiuto da parte di X, che è letteralmente piovuto tra loro e che, per un irrefrenabile sentimento di nichilistica violenza, combina un disastro dopo l’altro, disseminando il loro percorso di morti.
I masochisti che decideranno di affrontare la dura prova del film di Gregg Araki (anzi, di “un film eterosessuale di Gregg Araki”, perché il pubblico è ovviamente tenuto a sapere che il regista è omosessuale, che si definisce il capofila della Queer New Wave, ovverossia della nuova ondata omosessuale, e che Doom Generation rappresenta una rottura in una linea di film gay...) si troveranno di fronte a una serie in crescendo di orrori. Si comincia con una testa mozza che finisce in un piatto di salsa di cipolle, la assaggia, la sputa e continua a parlare. Si prosegue con un braccio mozzato che viene buttato in macchina come un qualsiasi bagaglio. Si culmina con uno stupro e una castrazione nel bagliore di un fuoco. In mezzo, costituiscono una pausa quasi rilassante i vari incontri erotici del terzetto, che propugnano un interessante anche se non mediato uso delle dita e dimostrano come l’animo omosessuale di Arald non sia sopito.
Doom Generation è stato presentato al Sundance Film Festival, poi a Venezia alla Finestra sulle Immagini, e gli è stato decretato un piccolo culto: ma non fidatevi. Se è vero che il giovinotto è tecnicamente molto brillante e maneggia la sua prima cinepresa a 35 mm con stile (i suoi film precedenti erano molto più artigianali, qui c’è un budget di un milione di dollari astutamente sfruttato), l’innesto che Araki tenta tra Tarantino (fin dai nomi dei personaggi...) e Oliver Stone si risolve in un incubo notturno che fa pagare a caro prezzo i pochi momenti di qualche divertimento.
Tra Quickie Marts e cibi schifosi, squallide camere di motel e fabbriche fatiscenti, neon e frattaglie del sogno americano, una comparsata della celebre maitresse Heidi Fleiss e una lezione sui ritmi dell’amplesso, Gregg Araki fa la solita furba retorica sulla “generazione doom” (parola che significa molte cose, tra cui il giorno del giudizio, e che quindi potremmo qui tradurre con “apocalisse”), rivestendo la sua pseudocronaca di voyeurismo morboso e di compiacimento sadico. Si potrebbe semplicemente ignorarlo - senza per questo disconoscergli un certo talentaccio - se non definisse il suo film “un’opera d’arte”. Be’, sono pronta al dibattito: non lo è. Sarà vero, come dichiara, che nel suo patrimonio genetico di regista ci sono Godard e i primi piani di Bruce Weber, lo studio sulla luce di Caravaggio e il cinema di Derek Jarman. Ma gli manca un ingrediente più modesto e fondamentale che si chiama senso della misura.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996