Favola, parabola, aneddoto, in un bianco e nero che colloca la vicenda in una dimensione atemporale.
Il racconto sincopato di Jarmusch è accompagnato ritmicamente da Neil Young alla chitarra.
Le scene sono intervallate con siparietti nero pece, con un montaggio ellittico alle stregua delle tendine del cinema muto, che spezzano la stessa azione in frammenti ed aumentano il contrasto.
Dal nero della pausa riappare il bianco del volto esangue di Depp, più pallido della sequenza precedente, nel suo viaggio immaginifico.
Il protagonista è accompagnato, novello Dante, in un girone infernale da un Virgilio indiano, Gary Farmer, che ha vissuto in Inghilterra e lo confonde con l’omonimo poeta William Blake, attraverso un west reinventato.
Ogni luogo comune è capovolto nell’opposto. Il mito tramandato nei vecchi racconti che animavano le serate trascorse accanto ad un fuoco acceso nella notte è trasfigurato nel grottesco della farsa.
E’ un viaggio metaforico attraverso i sette peccati capitali dell’America. Un viaggio intrapreso per una promessa di lavoro presso una delle tante industrie che nascevano all’epoca nel paese, capitanata dal padre padrone, ossia la superbia, Robert Mitchum, in uno straordinario cammeo, una delle sue ultime apparizioni sul grande schermo prima di passar a miglior vita. Ma al suo arrivo in fabbrica viene sommerso da una valanga di risate degli impiegatucci assiepati nel piccolo ufficio dominato dal capo contabile, John Hurt,l’invidia, servo pavido e non meno cinico del suo datore di lavoro. Senza un soldo e senza nemmeno la prospettiva di un alloggio per la notte, incontra un ex meretrice, che lo conduce alla sua stanza adornata di fiori di carta bianchi, annuncio di una percorso di redenzione. La donna, raggiunta dal suo vecchio amante,Gabriel Byrne, l’ira, è uccisa con un colpo al cuore che la trapassa ferendo William, che fa a tempo a prendere la pistola nascosta sotto il cuscino e a fare fuoco a sua volta, compiendo così il suo primo assassinio. E’ la prima tappa della sua personale via crucis, l’eliminazione del primo peccato capitale.
Inseguito da un implacabile trio di killer, di cui uno si rivelerà il lupo cattivo, l’antropofago cacciatore di taglie, Lance Henriksen, la gola, William e la sua guida si imbattono in tre cacciatori di pellicce. Sono Iggy Pop, travestita da innocua nonnina, che narra ai suoi improbabili nipotini, meglio loschi compari ed amanti, il gatto e la volpe, bruciati dalla lussuria per la giovane preda, una fiaba come quelle che si raccontano nei film sulla storia americana delle origini.
Prima di imbarcarsi su una canoa, i due antieroi entrano in una bottega in cerca di tabacco, ma il proprietario, Alfred Molina, riconosce William e per intascare la taglia che pende sul suo capo, per avarizia, nel tentativo di ucciderlo perde la vita.
William, la personificazione egli stesso del settimo vizio, l’accidia, perché rimane inerte ed indifferente di fronte alla strage di bisonti a cui assiste nel viaggio in treno, diventa una leggenda suo malgrado, mostrando come per caso nascono i miti della vecchia America tramandati ai posteri. Dead man, il negativo della fotografia patinata dei paesaggi tinti dal rosso dei canyon con l’eroe invincibile che cavalca solitario sotto cieli azzurri percorsi da lievi nuvole bianche, è la smitizzazione del classico western hollywoodiano in forma di favola moderna, in cui ironicamente si fa il verso al puritanesimo americano, offrendo provocatoriamente all’americano medio un percorso spirituale alternativo per la redenzione dai sette peccati capitali di cui si è macchiata la nazione nel corso della sua storia.
La catarsi finale, al termine del percorso spirituale, in cui tutti e sette vizi sono stati sconfitti, è indicata nell’abbandono della propria cultura di morte e di distruzione, per abbracciare, nell’ultimo viaggio, la saggezza primitiva degli indiani, gli unici rimasti a possedere la chiave del mistero della vita e della morte.
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