Irene Bignardi
La Repubblica
Blue in the Face completa il ritratto del mondo di Paul Austei-. Dico del mondo di Paul Auster perché non c’è dubbio che la personalità dominante di questo dittico - il “film” Smoke e il “documento” Blue in the Face - è proprio lo scrittore di La trilogia di New York e di La musica del caso, e che Wayne Wang è stato in questa avventura l’estensione registica. Tanto che Auster, trovatosi sbalzato casualmente dietro la macchina da presa a girare qualche scena in assenza del suo complice sino-americano, firma qui la regia assieme a lui.
Perché Blue in the Face? Perché quelli che hanno lavorato sul set di Smoke e tutti quelli che hanno voluto aderire al progetto di una sorta di sequel, si sono dichiarati pronti ad agitarsi e a parlare davanti alla cinepresa di Auster-Wang fino a diventare tutti blu per la mancanza di fiato. Promessa mantenuta. Siamo nel regno dei narratori di storie. Cominciamo con il precisare alcune cose: Blue non è un “making of” Smoke. E stato girato in una settimana alla fine del film, con una storia e uno stile molto diversi. Non è un sequel, anche se ci ritroviamo molti dei personaggi di Smoke o almeno dei loro interpreti, primo di tutti Harvey Keitel, sempre al centro della sua Brooklyn Smoke and Cigar Company, che sempre più, con buona pace delle latitudini e delle longitudini, assomiglia a un campiello goldoniano. Concesso dai produttori come un bizzarro regalo-esperimento a una squadra che non voleva saperne di sciogliersi, Blue in the Face è semmai il “contesto” rispetto al “testo” rappresentato da Smoke. E vale la pena, per estimatori del film e aspiranti cineasti, seguire dalle pagine del volume pubblicato da Einaudi l’evoluzione del progetto, e leggervi anche il racconto di Auster, pubblicato sul “New Yorker” cinque anni fa, che ha messo in moto questa divertente avventura.
Il “contesto” di Brooklyn, che si ripropone qui in un autoritratto soft, tollerante, interrazziale, pigramente inefficiente, umanisticamente capace di tirare a campare come proprio non sa fare la vicina Manhattan e come non riesce al confinante Bronx, è un crocevia popolato di fannulloni, filosofi da marciapiede, aspiranti alla gloria di Las Vegas, musicisti della domenica, amanti litigiosi, eccentrici poveracci. A ogni personaggio portante gli autori hanno concesso dieci minuti - un rullo - di assoluta libertà all’interno di un canovaccio tematico più che narrativo, in cui altri potevano intervenire in base a istruzioni segrete ricevute dalla regia.
Ne è uscito un allegro gioco che nei momenti meno riusciti (pochi) ha il limite di sembrare un divertimento in famiglia, in quelli migliori è un manifesto di anarchica allegria e di indulgente tenerezza per un modo di vivere alla giornata che Auster pensa sia ancora possibile, in quelli più mondani - quando sono di scena Lou Reed che filosofeggia, Madonna che, in costume da valletta, fa il telegramma sonoro, Jim Jarmusch che discetta sul fumo, Lily Tomlin travestita da barbone - dimostra che il piacere di un progetto diverso seduce chiunque. Alla fine sappiamo forse anche qualcosa su Brooklyn, che, grazie a Auster, a Wang e ai loro complici, sembra un posto dove si potrebbe persino scegliere di vivere. Ma si sa che il cinema è una magnifica illusione.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996