America oggi

Un film di Robert Altman. Con Anne Archer, Jack Lemmon, Madeleine Stowe, Lily Tomlin, Tim Robbins.
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Titolo originale Short Cuts. Drammatico, durata 180 min. - USA 1993. - Penta Distribuzione uscita mercoledì 10 agosto 1994. MYMONETRO America oggi * * * 1/2 - valutazione media: 3,94 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

Certo i sogni hanno poco a che vedere con le recensioni. Ma dopo aver visto Short Cuts, mi è capitato di fare un puntualissimo sogno a proposito di Robert Altman. Meglio, a proposito di Raymond Carver, il grande scrittore dei piccoli racconti che Altman ha intrecciato, rimontato, intessuto nel suo bellissimo film. Ho sognato che cercavo di spiegare a qualcuno le ragioni del fascino che Short Cuts esercitava su di me. “E lo stesso che in Cattedrale,” dicevo, identificando nel sogno Altman e Carver. - Cattedrale è il titolo di un racconto-acrobazia, di un racconto-scommessa, in cui un personaggio cerca di descrivere a un cieco che cos’è una cattedrale gotica, di rendere visibile, grafica, leggibile una realtà sconosciuta e neppure immaginabile al suo interlocutore. Short Cuts - il più grande, il più ricco, il più altmaniano dei film di Altman dai tempi di Nashville, diciotto anni prima - è la stessa scommessa di riproduzione totale, e produce lo stesso effetto. Rimette in scena la vita con la complessità dei suoi intrecci, la casualità delle sue violenze quotidiane, la mancanza di sceneggiatura delle sue storie che, al contrario di quelle letterarie o cinematografiche costruite secondo un arco narrativo, non hanno mai un vero inizio e una vera fine. Nel complesso intreccio della sceneggiatura di Short Cuts, scritta da Altman insieme a Frank Barhydt, l’unico cedimento a un procedimento narrativo tradizionale è quello della cornice che inquadra tre giorni di una piccola apocalisse tra un volo di elicotteri violento e mozzafiato quanto quello di Apocalypse Now (ma il nemico qui è la mosca mediterranea che infesta gli alberi da frutta della piana di Los Angeles e l’arma un pesticida che inquina le piscinette e i giardini suburbani) e un terremoto di settimo grado sufficiente a dare uno scossone ai sentimenti e alle vite - ma non ancora l’atteso Big One che biblicamente minaccia Los Angeles-Babilonia.
Al contrario di quanto accadeva in Nashville, che inevitabilmente, per struttura e dimensioni, è il termine di paragone di Short Cuts (ma Short Cuts batte Nashville per tre ore e cinque minuti contro due ore e venti), non c’è salvezza, redenzione (mi si passi la parola) o speranza nel mondo combinato di Carver e Altman. Nell’America competiti
va, ingenua e crudele di Nashville, Altman aveva trovato ancora personaggi e valori da difendere, almeno con lo bumour e la tenerezza, anche se il coro finale - “It don’t worry me” - che accompagnava l’assassinio di Rooney Blakley e lo sventolare della bandiera a stelle e strisce, prefigurava l’indifferenza dell’età del reaganismo, ma anche la voglia di vivere di una generazione.
In Short Cuts, senza che Altman si erga mai a giudice, il paesaggio umano del postreaganismo risulta invece uniformemente desolato e desolante, squallido e depresso, infelice e miserando. E insensibile dal punto di vista morale:
con due sole eccezioni - il piccolo Carey che si spegne lentamente il giorno del suo compleanno e la giovane violoncellista che non resiste all’indifferenza che la circonda -ogni pietà e innocenza è morta: se essere innocenti non è sinonimo di inazione, e vuol dire - anche - fare qualcosa per gli altri gratuitamente e per amore. I fedeli lettori di Carver saranno forse un po’ spiazzati dal fatto che Altman ha ambientato i suoi racconti a Los Angeles (e il film, che Altman cova da cinque anni, doveva in principio chiamarsi L.A. Short Cuts). Ma più che un luogo Altman racconta una fascia sociale, l’America “trasversale” dei sobborghi, né ricca né, se povera, poverissima, sempre a rischio, l’altra faccia del mondo levigato di I protagonisti. Ed è ironico che per arrivare a fare questo suo amaro affresco di fine millennio e ritornare alla sua vena più autentica Altman si sia conquistato i suoi galloni sul campo del box office proprio con un perfido ritratto di Hollywood. Le “scorciatoie” del titolo (ma Short Cuts allude forse anche ai brevi scampoli di storie che il film intreccia) sono quelle di una ronde malinconica di vite e sentimenti fallimentari in cui si incrociano e si sfiorano un poliziotto adultero e bugiardo e una separata in cerca di sistemazione, un idraulico sessualmente frustrato e una cantante senza illusioni, una cameriera di ristorante e un aspirante truccatore cinematografico, un medico ossessionato dalla gelosia per la bella moglie pittrice e una giovane donna che sbarca il lunario sceneggiando telefonate sexy mentre dà la pappa al suo bambino, un ragazzino che corre felice a scuola e tre pescatori che scoprendo un cadavere di donna nel fiume non sanno fare altro che lasciarcelo, un pilota di elicottero che fa metodicamente a pezzi la casa dell’ex moglie e un commentatore tv incapace di esprimere i suoi sentimenti, la difficoltà della vita e la casualità della morte.
L’originalità assoluta del carosello di Altman sta nello sguardo, nel modo di ritmare le sue otto storie, nei tagli imprevedibili del tessuto narrativo, nella fluida conduzione di una squadra di attori diversissimi ma tutti intonati e sensibili al gioco: dalla sua veterana Lily Tomlin che accetta di mostrare il sedere sotto la minigonna da cameriera di diner, a Jack Lemmon che si ritaglia una figura di perdente non diversa da quella di Americani, dal detestabile Tim Robbins al nevrotico Matthew Modine, capace di ingoiare una dura verità e dimenticarla un minuto dopo nell’ubriachezza e nel gioco sociale, da Jennifer Jason Leigh che dimostra quanto siano facili le bugie erotiche, a Andie McDowell, impietrita e inconsapevole nell’attesa accanto al letto del suo bambino in coma. Il demiurgo Altman ricostruisce i frammenti delle loro vite, li ruba, li insegue, li intreccia. Ma se ci si diverte e si ride all’inevitabile assurdo della vita, per piacere del tutto e a tutti, a un capolavoro come Short Cuts mancano la speranza e il sorriso. Kasdan, nella ronde del suo mal riuscito Grand Canyon (1991), aveva deciso di riscattare il malessere americano con un invito alla bontà. Altman sa che non è possibile, che portare sullo schermo la vita quotidiana vuol dire dipingere un’irrimediabile infelicità, e che il lieto fine è roba da cinema.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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