Irene Bignardi
La Repubblica
Il titolo misterioso della commedia di John Guare da cui è tratto il film di Fred Schepisi -6 gradi di separazione - allude alla teoria di un personaggio, secondo la quale sul pianeta Terra ogni essere umano è separato da qualunque altro da sole sei connessioni. Un modo di dire che è entrato nel gergo del bel mondo americano: quello dove veramente i gradi di separazione tra persona e persona sono spesso anche meno.
Grande, sofisticato successo teatrale, la commedia di John Guare passa benissimo dalla scena allo schermo per l’intelligente ampliamento che il commediografo e il regista ne fanno, e per l’intelligenza tout court del copione, che va a toccare molti nervi scoperti della sensibilità americana in campo sociale, politico, etico.
Capita dunque che una sera, nella splendida casa sul Central Park di un mercante d’arte che sta attraversando un momento di crisi (o, almeno, una crisi di “cash flow”) arriva un ospite inatteso. Il ragazzo nero Paul (Will Smith), racconta a Flan (Donald Sutherland) e a sua moglie Louisa (Stockard Channing) di essere stato aggredito, di essere un compagno di college dei loro figli, e infine di essere figlio di Sidney Poitier, che sta per arrivare a New York per la versione cinematografica di Cats. Paul, molto caruccio e con uso di mondo, fa dei commenti giusti sul Kandinskij bifronte che pende in soggiorno, improvvisa un’ottima cena per i padroni di casa e un loro ospite a cui sono molto interessati perché dovrebbe tirar fuori dei soldi quanto mai necessari, se ne esce con una lettura anticonformista di Il giovane Holden come romanzo immorale, e va a dormire. Salvo essere beccato il mattino dopo da Louisa a letto con un giovanotto che nel corso della notte è sceso a raccattare in Central Park.
Nei giorni successivi, l’aneddoto diventa il soggetto prediletto di conversazione della coppia, che, tra una cena e un vernissage di arte moderna, scopre ben presto come la faccenda si sia ripetuta con molti amici del loro giro, sempre secondo le stesse modalità. Perché?
L’apertura a cui il cinema costringe la pièce di Guare per una volta arricchisce, se possibile, il testo e i suoi significati, e i passaggi temporali, l’uso intelligente dei flashback, la struttura narrativa molto mossa pur nei limiti di un copione di parola contribuiscono a fare di6 gradi di separazione un piacere di drammaturgia intelligente. Senza predicatorietà e con molto amarognolo humour, Guare e Schepisi mettono gentilmente alla gogna la falsa coscienza borghese, gli snobismi, il razzismo dei politically correct, le vanterie sociali. Un trionfo di attori in una commedia di idee acuta come poche.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996