Irene Bignardi
La Repubblica
Una brillante giornalista di cinema, Lisa Kennedy, sul numero di febbraio di “Sight and Sound” - la rivista del British Film Institute -, in un lungo pezzo critico su Spike Lee, non esita a mettere in collegamento i due grandi eventi del 18 novembre 1992, l’elezione di Bill Clinton e la prima di Malcolm X a New York, chiedendosi “chi farà di più per l’America nei prossimi quattro anni: se Bill o il fantasma evocato da un regista di trentacinque anni”.
Esagerazioni giornalistiche, certo, e, forse, la segreta speranza di un critico che il cinema possa cambiare veramente il mondo, così come JFK ha costretto comunque a rivedere la storia riaprendo gli archivi sul caso Kennedy. E non c’è dubbio che se Malcolm X non ha avuto gli effetti incendiari che i suoi titoli di testa prefigurano - un montaggio tra il pestaggio di Rodney King e una grande bandiera americana che brucia lentamente sino a lasciare solo un’enorme X - ha portato a una curiosità sul personaggio del leader nero che l’industria editoriale, con oltre venti titoli inventati o ritirati fuori per l’occasione, stenta a soddisfare.
I neri d’America stanno lentamente ma stabilmente scoprendo con orgoglio, attraverso l’immagine di Malcolm X come l’ha politicamente espurgata a fini agiografici Spike Lee, quello che Ossie Davis, nel suo discorso in occasione della morte di Malcolm X, chiamò “il nostro splendente principe nero, la nostra umanità”: e il pubblico bianco che ha sempre seguito Spike Lee corre a vedere un film che parla dei bianchi come di “diavoli dagli occhi azzurri”. Insomma, il corto circuito tra le due culture, se non l’incendio, c’è stato, e la grancassa cinematografica è riuscita ancora una volta a diffondere più informazione sull’argomento di quanto non sia riuscita a fare la macchina giornalistica ed editoriale nei ventotto anni che ci separano dall’assassinio di Malcolm X.
L’unico risultato importante che ancora non è stato raggiunto. Come invece per JFK, è la revisione del caso. “Penso che non ci siano dubbi che la Nazione dell’Islam fosse dietro l’assassinio. I cinque killer appartenevano al tempio 25 di Newark, nel New Jersey. Non voglio con ciò dire che l’onorevole Elijah Muhammed [allora capo della nazione dell’Isalm N.d.A.] abbia ordinato l’assassinio, ma qualcuno a Chicago ha dato l’ordine. E l’Fbi e la Cia erano coinvolti sapevano che sarebbe accaduto ma si sono tirati indietro e non lo hanno impedito”.
Questa la denuncia di Spike Lee, ribadita nell’intervista a “Sight and Sound”. Il film di Spike Lee, insomma esibisce vizi e virtù: i limiti agiografici e l’eccessiva lunghezza, lo squilibrio di stili tra la prima parte e le successive, l’intonazione didattica e la retorica del finale, ma anche la festa di invenzioni con cui racconta la giovinezza scapestrata di Malcolm e le brillanti soluzioni di un regista epico che sa il fatto suo, la passione controllata e la voglia di farsi capire. Suscita, malgrado questi squilibri, curiosità, e forse riaccende il desiderio di ripercorrere le pagine dell’ Autobiografia di Malcolm X, appena ristampata, per scoprire anche qualcosa di più.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996