Irene Bignardi
La Repubblica
Come a suo tempo sesso, bugie e videotape, anche In the Soup - Un mare di guai proviene dal vivaio del Sundance Film Festival, e appartiene all’altra faccia del cinema americano: quella del cinema indipendente, che sfoggia nel film due suoi volti emblematici, quello di Jim Jarmusch (a cui Rockwell affida il breve e divertente cammeo di un produttore televisivo cinicamente beneducato) e quello di Seymour Cassel, l’attore feticcio di Cassavetes, travolgentemente simpatico, vitale, imprevedibile, ambiguo nel suo ruolo di Mefistofele a New York.
A tutta prima In the Soup - che, a conferma della sua nascita Doc, è prodotto da Jim Stark, il produttore di Jarmusch, e sfoggia un brillante bianco e nero di Phil Parmet - potrebbe sembrare l’ennesimo film sul cinema travestito da black comedy. Il protagonista Adolpho (Steve Buscemi, che abbiamo visto tra l’altro in Mystery Train e più recentemente in Le iene), è infatti un aspirante regista, che vive a Manhattan in una miseranda stamberga, facendo la fame e sognando di girare prima o poi un suo gigantesco copione (cinquecento pagine) intitolato Resa senza condizioni. Quando un giorno, in risposta a un’inserzione con cui mette in vendita il suo copione, incontra Joe (Seymour Cassel), sembra che il gioco sia fatto. Tra un abbraccio ridanciano e ambiguo, una cena e molte risate, Joe sembra intenzionato a finanziare il film. Ma presto si rivela, agli spettatori se non ancora all’imbambolato Adolpho, per quello che è: un piccolo mafioso, imbroglione di mezza tacca, megalomane e ballista. Che si diverte più a veder recitare ad Adolpho, nella vita, il ruolo dell’aspirante artista, di quanto non voglia aiutarlo veramente a fare il suo film. Nel frattempo, il malinconico Adolpho, che vive tra le ombre mentali di Dostoevskij e di Nietzsche, tra una drammatica immagine di Anna Magnani e un manifesto di Stalker, comincia a divertirsi, incoraggiato com’è dall’amico, nel suo innamoramento per una bella vicina di pianerottolo, Angelica (Jennifer Beals, curiosamente truccata, tutta ricci e occhi ombrati, da donna latina).
Ma sotto la crosta del divertimento ironico, che regge bene soprattutto nella prima parte, In the Soup offre una visione tutt’altro che facile della vita metropolitana, della casualità dei suoi incontri, delle sue solitudini a confronto. La bella Angelica, che è un’immigrata povera, fa una vita d’inferno, divisa tra il lavoro, una famiglia da sfamare, il fratello minorato, un marito, sposato solo per ottenere la famosa “carta verde”, che esige i suoi diritti coniugali e per colmo di beffa è... francese (“Non capivo ancora bene l’inglese,” si giustifica lei). Un vecchio nella cui casa Joe trascina Adolpho per uno dei suoi tanti piccoli colpi, svegliato nel cuore della notte, scambia il giovane per suo figlio, e, in una conversazione notturna sospesa tra malinconia e grottesco, gli confessa l’impossibile desiderio di fare ancora una volta l’amore con la moglie da tempo scomparsa, che da viva ha continuamente tradito. E il tuffo nella realtà cui Adolpho è costretto da Joe finisce per insegnargli molte cose che gli saranno più utili per il suo ci-nema della cinefilia e dei suoi numi tutelari. Come dimostra il film stesso: che, si scopre da una nota autobiografica del regista, racconta una sua autentica esperienza, dei tempi in cui si apprestava a girare il primo film, Lenz, da Buchner.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996