Gli spietati

Lo stile di Eastwood è definito e inimitabile. È un creatore di atmosfere tristi, malinconiche, di un mondo senza colori, violento, duro, senza idealizzazioni che diano bellezza alla vita di un uomo. Per William Munny i sentimenti, la propria indole sono come un mostro spaventoso da cui non riesce a divincolarsi, una bestia che dorme e attende solo il momento giusto per aggredire, uccidere. C’è la tragicità di constatare l’impossibilità del cambiamento profondo e radicale dell’animo umano. Per Bill Munny la presenza di sua moglie era stata l’unica catena per quella bestia che albergava dentro di lui e che era riuscito a rinnegare per più di dieci anni, l’amore l’aveva addolcito. E mentre si appresta compiere l’impresa che si era prefisso, lo si sente continuamente ripetere a sé stesso e agli amici che lui non era più lo stesso, che aveva smesso di bere whisky, di ammazzare per soldi, a sangue freddo, persino donne e bambini. Il ricordo della persona che era stato lo terrorizza ma al contempo non può fare a meno di esserne rapito, affascinato. È il fascino oscuro e incomprensibile della cattiveria, della malvagità, del sangue. Infine l’ambiguità, l’ambivalenza è il fulcro del tutto. Nelle parole scritte alla fine della storia si narra, si ribadisce come fosse stato possibile che la defunta moglie di Bill abbia potuto sposare un uomo “di noto vizio e indole spietata”. Tutta la storia è tesa a spiegare il perché. Perché in uno come Bill non esisteva solo quell’essenza malvagia e distruttiva che non aveva saputo, esisteva anche una spinta, un impeto contrario che ha sempre lottato per l’autocontrollo e la mansuetudine, e sofferto il fardello di tutti i sensi di colpa accumulati nel corso della vita.