Dracula di Bram Stoker

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Un film di Francis Ford Coppola. Con Gary Oldman, Winona Ryder, Anthony Hopkins, Keanu Reeves, Cary Elwes.
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Titolo originale Dracula. Horror, durata 128 min. - USA 1992. MYMONETRO Dracula di Bram Stoker * * * * - valutazione media: 4,27 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

Qualche anno fa, su “Calibano”, Franco Moretti, un giovane e brillante professore di letteratura inglese (e, si dà il caso, anche fratello di Nanni Moretti) sostenne che Dracula è un ossimoro. Un modo prezioso per dire contraddizione in termini. Perché cos’è infatti Dracula se non un morto-non-morto (Nosferatu), un ricco aristocratico sì, ma costretto a rifarsi i letti da solo, e via elencando?
Totalmente, assolutamente “di” Francis Ford Coppola anche Dracula il film, il duecentocinquantesimo, forse, che al Principe delle tenebre il cinema ha dedicato, è un ossimoro. Perché è un film sicuramente d’autore, che concentra tutte le passioni, la voglia di invenzioni, l’avventurosità nello sperimentare le infinite possibilità del mezzo cinematografico care - e costate care - al grande Coppola:
ma al tempo stesso è un blockbuster hollywoodiano, con un cast di stelle, un budget di 45 milioni di dollari, e l’evidente e preponderante progetto di stupire. Perché promette - appunto - di voler essere filologicamente fedele al testo di Stoker, e invece va a rileggerselo a modo suo, innestando i riferimenti e le paure dell’età dell’Aids nella storia immortale scritta cent’anni fa (nel 1897) da Bram Stoker in risposta alle ossessioni e alle fobie sessuali dell’età vittoriana, e inventandosi una storia d’amore tra il conte Dracula e Mina Murray con tanto di catarsi finale. Perché è un film pieno di invenzioni di stile, ma a tratti sembra un’antologia di centoni del peggiore horror. Perché è un film che dovrebbe procurare pelle d’oca e far scorrere adrenalina, e invece annulla gli eccessi di climax con una stuporosa ripetizione di meraviglie. Perché è un bel film brutto (ma il gioco finisce qui: non è un brutto film bello).
Certo, non c’è nessuno bravo come Coppola. I prodigi tecnici che lui e la squadra capitanata dal figlio Roman riescono a squadernare non hanno paragone con le algide meraviglie dei vari Terminator. Coppola guarda a Méhiès con la sapienza dei computer. Così l’occhio della coda di un pavone si trasforma nella galleria dentro cui scorre il treno che porta Jonathan Harker verso la Transilvania. I paesaggi transilvanici rimandano a Friedrich. Il castello e le sue criptealcove sembrano la materializzazione a tre dimensioni dei disegni usciti dalla penna di Satty che illustrano la vecchia edizione Longanesi di Dracula. L’ombra del conte, grazie alla sapienza dell’illuminazione di Michael Ballhaus, può tranquillamente e angosciosamente lasciare il suo corpo e vivere di vita propria con tutti gli effetti inquietanti del caso. L’orripilante amplesso di Lucy - l’amica di Mina che si agita e si scalmana come un’isterica pronta per il dottor Freud - con il lupo ha la bellezza angosciosa di un Fussli. Le mogli di Dracula - tra cui è mescolata la nostra Monica Bellucci, irriconoscibile - hanno un’eleganza da Gustave Moreau (ma una hibido da Madonna). E c’è da scommettere che nessuno spettatore minimamente cinefilo potrà fare a meno di pensare a Ombre rosse durante l’inseguimento in carrozza verso il castello di Dracula. Anche perché Coppola nel lussuoso libro americano che accompagna il film lo dice apertamente.
Ironizza Coppola, mentre in quel di Londra porta Mina e il suo vorace corteggiatore ad ammirare i prodigi del cinema neonato che rievoca con l’aiuto di una vecchia Pathé a manovella: “Se cercate la cultura, visitate un museo”. Tolta l’indubitabile cultura e la meraviglia, il suo film è un’addizione di putrescenze e di sangue, di kitsch gotico, di scene madri e di chimax che non portano a nulla: né alle emozioni che fornivano i Nosferatu di Murnau e - sì - di Herzog, né ai brividi di grana grossa dei vampiri Hammer, né alle risate di Polanski, di Amore al primo morso e di Dracula Dracula Dra. Anche i veri colpi di ironia - per esempio ha testa mozza che per uno sberleffo del montaggio si trasforma in un arrosto - non impediscono che il film bordeggi senza equilibrio tra citazioni e caricatura, mentre la musica di Wojciech Kilar imperversa come nei film che hanno poco da dire.
Certo, sentir parlare di “una malattia del sangue sconosciuta alla scienza medica”, sentire Mina - nel gran finale del film - invocare di poter dividere la sorte e la morte del suo compagno, dà i brividi: che hanno però meno a che fare con i vampiri che con la tragedia collettiva di questa fine secolo. E le scene di battaglia e di impalamento alla Kagemusha che costituiscono la cornice in cui si muove Vlad Tepes, il Dracula sterminatore di turchi della storia -chissà cosa dirà il suo più recente biografo, l’innocentista Marin Mincu? -, hanno una grandiosa cupezza. In compenso, nonostante l’eleganza dei costumi di Eiko Ishioka, è difficile restare seri di fronte all’acconciatura alla Pampurio del vampiro Gary Oldman e al suo accento gorbacioviano, di fronte al Van Helsing di Anthony Hopkins che, forte del suo passato come Hannibal the Cannibal, può fregarsene di recitare e limitarsi a dire ‘la”, e alla Lucy di Sadie Frost che si agita e si offre come una starlet porno.
Si salvano giusto Winona Ryder e Tom Waits, che nel ruolo del folle Renfield mangia disinvoltamente mosche e ragni. Keanu Reeves, nei panni inamidati del ligio Harker, è come se non ci fosse. Coppola ha sacrificato una delle metafore più sconvolgenti e insinuanti dell’età moderna alle necessità di un lavoro su commissione, al divertimento del suo superartigianato e al gusto più facile del pubblico, che in America ha accolto questo blob dell’orrore con tale entusiasmo da far sperare che presto tutte le sue difficoltà finanziarie saranno risolte. Ce lo auguriamo di tutto cuore per lui e per noi suoi ammiratori: vuol dire che la prossima volta potrà tornare a lavorare in assoluta libertà.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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