Codice d'onore

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Irene Bignardi

La Repubblica

Quaranta milioni di dollari, due star giovani e “calde” come Tom Cruise e Demi Moore, una star sempreverde e sempre grintosa come Jack Nicholson, una derivazione teatrale e un regista fortunato come Rob Reiner: Codice d’onore è un esempio di quelli che in gergo cinefilo si chiamano i “courtroom drama”, i film che si svolgono o hanno le loro scene madre in tribunale, da Perry Mason a Music box attraverso La parola ai giurati, tanto per capirci. E che appartengono a un genere tutto particolare di thriller, in cui la scoperta della verità (o l’abilità nell’occultarla) risiede nella pura forza dialettica, nell’ordire un sistema di domande e risposte che devono rivelare la verità, ma allo stesso tempo convincere con qualche colpo o trucco di scena i giurati.
A questo genere drammaturgico tipicamente angloamericano (da noi al massimo resta memorabile l’arringa di De Sica a favore di Gina Lollobrigida in Altri tempi) si mescola, in Codice d’onore il filone Ufficiale e gentiluomo annunciato dalla geometria dei rituali militari dei titoli di testa. Ma rovesciato. Non sembra un ufficiale e gentiluomo il giovane Tom Cruise, brillante neolaureato alla Law School di Harvard che ha deciso di passare la ferma facendo l’avvocato dei Marines (ma sulle rive del Potomac), che si veste male, è disordinato, parolacciaro e apparentemente poco serio. Sembra un ufficiale e gentiluomo Jack Nicholson, nella superba interpretazione che dà del colonnello Nathan Jessep, capo della base americana di Guantanamo a Cuba, dove un marine viene ucciso da due commilitoni per ragioni che un’inchiesta e un processo dovranno chiarire, ma che il colonnello ritiene non valga la pena di indagare.
Alla fine scopriremo naturalmente che il primo, a cui è stata affidata la difesa dei due presunti assassini, è pronto a giocarsi la carriera per sfidare le gerarchie militari, un perverso senso del dovere militare e il codice d’onore dei marines (che vede in testa come valore primario la patria, seguita da Dio e dalla compagnia). Mentre Jessep, nel suo delirio autoritario e militaristico, certo è ufficiale (guardate come incede nell’aula del tribunale, sdegnato per il fatto che si sia osato convocarlo) ma assai poco gentiluomo. Quanto all’ufficiale e gentildonna Demi Moore, capitano di corvetta e avvocato, le vengono assegnati dal copione le stupidaggini, le gaffe, lo sciocchezzaio che il cinema riserva alle donne in carriera. Ma le viene evitato almeno il supremo oltraggio di costringerla all’inevitabile love-affair con il suo socio nel processo, Tom Cruise, da cui sembra peraltro molto attratta. Grazie, Mr Reiner.
C’è da essergli meno grati per non aver saputo rinunciare a rimpolpare con le solite note di colore - scaramucce, battute, screzi, baruffe, rivalità tra colleghi e diverse concezioni del mondo e dell’avvocatura - una storia densa e tesa che ripropone il problema del diritto-dovere dei militari a pensare con la propria testa e a disobbedire agli ordini ingiusti. E per chi non volesse capire, si tira in ballo anche Norimberga... Tratto da una commedia di Aaron Sorkin andata in scena a Broadway nel 1989 per 449 repliche, Codice d’onore non ha potuto contare - e si capisce perché - su alcun aiuto dal corpo dei marines, di cui mette in discussione senza possibilità di equivoco il cosiddetto codice d’onore. Ma se si abbandona a qualche cliché e a qualche lungaggine fuori tema, se lascia che Tom Cruise per tre quarti del film gigioneggi fatuamente, ci dà anche uno strepitoso dibattimento e un Jack Nicholson grandiosamente cattivo, maniacalmente chiuso nella sua falsa etica militare. In altri tempi lo si sarebbe detto un film kennedyano. Forse rappresenta ora l’avanguardia dell’era Clinton.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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