Bob Roberts

Irene Bignardi

“Questa terra è la nostra terra”, “dal mare lucente al mare lucente”, “for you and me”. Occhio alle didascalie che traducono le canzoni. Come ai tempi di Nashville, a cui guarda da lontano, le parole che canta Bob Roberts - folk-star, miliardario e candidato al seggio di senatore per lo stato della Pennsylvania nell’anno di grazia 1990 - contano molto, e la dicono lunga sul personaggio. Che è un furbacchione, abilissimo nello smontare e nel riciclare l’etica e le speranze del 1968 in cui è cresciuto, i simboli del patriottismo americano più tradizionale, le note della sua chitarra falsamente innocente, in un messaggio populista e parafascista adatto agli anni yuppie di Perot.
Bob Roberts segna il debutto nella regia di Tim Robbins, interprete dell’altmaniano I protagonisti, ed è un film“d’autore”, scritto, diretto e interpretato da un attore che viene dal teatro (ha fondato dieci anni fa a Los Angeles un gruppo “di sinistra”, The Actors’ Gang), che ha messo in scena Brecht e Jarry. Ma soprattutto il film-spettacolo di un uomo di spettacolo, che sa come mescolare le idee e il divertimento, il mezzo e il messaggio.
Magari non tutto funziona a registro, qualche recitazione è sopra le righe, e al film fa velo un sospetto di manicheismo. Ma non ci si annoia per un secondo. Chi abbia visto Tanner 88 - il falso reportage di Altman su un finto candidato alla presidenza degli Stati Uniti - riconoscerà il Dna del film. Anche Bob Roberts è costruito come un finto documentario girato da una troupe tv che segue il candidato Roberts lungo tutta la sua campagna, fa il suo finto gioco della verità (da pop-star di successo il nostro è molto bravo a manipolare i media) e testimonia gli incidenti -fittizi e reali - che accadono. E doverosamente Tim Robbins ringrazia sia Altman che Woody Guthrie, i cui temi e le cui lyrics copia, smonta e cita a man bassa, un topos retorico dopo l’altro, rivelando quanto un uso manipolatorio e falso dei buoni sentimenti di sinistra possa trasformarli in equivalenti messaggi fascistoidi.
Nella cronaca dell’irresistibile ascesa di questo minicittadino Kane, lo vediamo sfogare ogni mattino la sua aggressività tirando di scherma, percorrere la Pennsylvania in tuta bianca da spadaccino a bordo della potente moto-
cicletta con cui precede l’autobus telematizzato che è il suo quartier generale, stringere la mano a destra e a manca, commuoversi, cantare nelle università e negli show televisivi, registrare trasmissioni tv. Vediamo i suoi videodip musicali, gli spot con cui parla di sé e quelli con cui attacca il suo rivale, un senatore democratico dall’allure kennedyana a cui Gore Vidal dà una rassegnata maestà. E assistiamo in diretta all’aggressione a mano armata che lo costringe in carrozzella - e gli fa vincere le elezioni.
Ma attenzione: come ben si sa, la verità non è mai quella che appare di primo acchito. Non solo l’attentatore non è il giornalista nero che viene additato come colpevole. Forse non c’è stato neanche l’attentato...
Se il film ha un torto, è quello di essere troppo simpaticamente manicheo, e di semplificare una realtà che le cronache televisive elettorali ci rimandano assai più complessa. Ma lo fa con intelligenza, con cattiveria, con passione civile, con senso del divertimento e del gioco. E segnalandoci il fatto che a Hollywood c’è ancora qualcuno che pensa in maniera anticonformista.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996