JFK - Un caso ancora aperto

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Un film di Oliver Stone. Con Kevin Costner, Tommy Lee Jones, Edward Asner, Walter Matthau, Sally Kirkland.
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Titolo originale JFK. Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 189 min. - USA 1991. MYMONETRO JFK - Un caso ancora aperto * * * 1/2 - valutazione media: 3,92 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

Diciamolo subito. Anche se è squilibrato, eccessivo, assordante; anche se ha qualche battuta insopportabile, picchi di retorica, virtuosismi irritanti; anche se è estenuante (dura tre ore e dieci minuti) e mette fisicamente a dura prova la resistenza dello spettatore sotto un bombardamento di informazioni e di effetti sonori; anche se la sua Interpretazione dei fatti può essere discutibile, incompleta, ingenua o - come sostengono i suoi detrattori - fantasiosa, JFK - Un caso ancora aperto è un grande film. Un grande film senza neanche le riserve che, con il suo con gusto del paradosso, ha espresso Norman Mailer in una appassionata recensione: “La prima cosa da dire su JFK è che è un grande film, la seconda che è uno dei peggiori grandi film mai fatti”.
Un po’ di più. È un grande film con grandi difetti che nascono in ugual misura dalla materia scottante e contro-versa, e dal temperamento vulcanico, barocco, iperteso del regista. Ma, vivaddio: in un’epoca di film apparentemente fatti al computer, o che guardano a una realtà minimale, JFK non ha paura di affrontare di petto la storia, le passioni politiche e ideali, i massimi sistemi della nostra epoca, e trasformarli in uno spettacolare thriller che, pur provandolo non poco, pur richiedendo incessantemente la sua attenzione, pur provocando a tratti la sua incredulità, terrà lo spettatore avvinto sino alla fine con un clamoroso intreccio di realtà e di fiction.
Nella stravagante ipotesi che qualcuno fosse riuscito a sfuggire alla martellante campagna di stampa su (e contro) il film, riassumiamo che in JFK Oliver Stone fa propria la teoria di Jim Garrison, District Attorney di New Orleans. Il quale indagò per tre anni - tra il 1966 e il 1969 - sull’assassinio di Kennedy, giungendo a ipotizzare che il presidente era stato vittima di un megacomplotto, in contrasto con le conclusioni del Rapporto Warren, che aveva deciso per la tesi dell’assassino solitario nella persona di Oswald.
Garrison - che nel film è Kevin Costner - incriminò la prima pedina sui cui riuscì a mettere le mani, Clay Shaw, un uomo d’affari di New Orleans, ma uscì sconfitto dal tribunale. E diede alle stampe tutta la storia in un libro che ora si può leggere anche in Italia, JFK - Sulle tracce degli assassini. Sulla cronaca dell’indagine condotta da Garrison e dalla sua squadra, sposandone totalmente le conclusioni e aggiungendone anche di sue, il regista - che ha scritto la sceneggiatura con Zachary Sklar, un giornalista e scrittore esperto di Cia e dintorni - costruisce un gigantesco puzzle, composto di materiali d’archivio, di ricostruzioni tanto perfette da sembrare vere, di ipotesi sceneggiate e poi smontate e contrapposte, di un’indagine giudiziaria condotta a ritmo vertiginoso, della capacità di ricreare lo sgomento, la confusione, il terrore che la morte del mito Kennedy produsse.
Può certo dar fastidio che, alla veemenza del racconto “epico”, pamphlet-denuncia di quello che Stone considera e tratta come un regicidio, come il frutto di una grande congiura di drammaticità shakespeariana, come la morte del sogno americano, come la tragedia storica che ha speto una generazione in Vietnam (e lui tra gli altri), non faccia riscontro una parallela finezza di trattamento dei momenti privati. Sissy Spacek incarna la solita moglie rompiscatole che si lamenta e protesta perché il marito trascura i bambini (ma niente paura, quando verrà il momento stringerà i denti e sarà accanto al suo eroe solitario e sconfitto), così che JFK si chiude esattamente come un altro recente film sulla paranoia politica americana, Indiziato di reato, con la famigliola americana “del dissenso” che cammina da sola verso un non radioso avvenire.
Garrison - Kevin Costner, nell’interpretazione dignitosa ma senza sfumature e impennate di un discendente degli eroi idealisti di Frank Capra - sfiora il ridicolo quando, alla notizia dell’attentato al presidente, è costretto a battute come “Joe, tieni duro” o “In questo momento mi vergogno di essere americano”. Per non dire di quelle lacrime virili, in sottofinale, che metterebbero a dura prova la credibilità di qualsiasi attore. E il cordoglio dei personaggi di colore è sfruttato con un sospetto di furbizia...
Ma sono sfumature, o mancanza di sfumature, che si perdono nella grandiosa ricostruzione cinematografica di un dramma storico che ha la suspense di un giallo e le scene madre della grande narrativa. Come l’incontro sotto il Lincoln Memorial, a Washington, tra Garrison e il misterioso Mr X che tutto sa e tutto può spiegare del “colpo di Stato” contro Kennedy, un supercammeo di uno splendido Donald Sutherland. O la lunghissima scena finale del processo a Clay (che è un misurato, ambiguo Tommy Lee Jones). Nell’intreccio drammatico e spettacolare di documenti autentici (come il film in super-8 dell’assassinio girato dal cineamatore Abraham Zapruder, che fu visto in quell’occasione dal pubblico per la prima volta e che conserva intatta la sua dirompente drammaticità), di ricostruzioni (come la scioccante scena dell’autopsia truccata di Kennedy), di pezzi d’archivio (il giuramento di Johnson); di esperimenti (la dimostrazione che un singolo cecchino non avrebbe mai potuto sparare tutti quei proiettili in quei brevi secondi), e grazie soprattutto alla dimostrazione tecnica del percorso di quella che è stata chiamata “la scatola magica” attraverso il corpo di Kennedy e del governatore Cormally, Stone riesce a smantellare a colpi di cinema la teoria del Rapporto Warren, a ridicolizzare la teoria dell’assassino solitario, a rendere evidente l’esistenza di un complotto. E a dimostrare, fotogramma dopo fotogramma, la labilità di qualsiasi verità ufficiale.
Che anche la sua - e di Garrison - sia labile è altrettanto evidente. Che Stone non sia un regista sottile, attento alle sfumature e per palati delicati, lo ha dimostrato in tutti i suoi film, e lo dimostra anche in questo che, con tutti i suoi difetti, trasuda la sincerità e la passione manichea di un “patriota che deve essere pronto a difendere il suo paese dal suo governo” (lo dice Garrison, ma ha l’aria di essere il punto di vista del regista).
Ma JFK, con la sua incalzante indagine su un moderno caso di “regicidio” rimosso dall’establishment (“Il tradimento non ha mai successo,” diceva Brecht, citato nel film “perché se ha successo non si chiama più tradimento”) offre alla generazione cresciuta dopo la tragedia di Dallas, e abituata alla falsificazione delle versioni ufficiali, una grande lezione di come si tenta di fare la storia.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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