Irene Bignardi
La Repubblica
Il Grand Canyon sta diventando improvvisamente di gran moda tra i simboli cinematografici. Sul Grand Canyon si chiude - sarebbe anzi meglio dire “dentro” il Grand Canyon, con un letterale salto nel vuoto - la fuga di Thelma & Louise. E, più prudentemente, sul bordo del Grand Canyon si ferma, estatica e in preda a edificanti pensieri, la banda di esseri di buona volontà che sono i personaggi di Grand Canyon, sesto film di Lawrence Kasdan, che si è conquistato, seppur tra molte contestazioni, l’Orso d’oro alla Berlinale 1991. La sceneggiatura - scritta da Kasdan a quattro mani con sua moglie Meg (il soggetto è stato candidato ma non premiato all’Oscar) - è, per la sua struttura corale e circolare, per la tensione morale che la percorre, la cosa migliore di questo film.
E anche una sceneggiatura molto rischiosa. Perché i buoni sentimenti, l’utopia, la critica sociale, la modesta proposta di rifondazione morale di una società devastata dalla violenza e dall’egoismo, così come la mette in scena Kasdan regista, avrebbero richiesto una leggerezza che non diventasse melensa, interpreti meno fragili, cattivi meno caricaturali.
Il Grand Canyon del titolo non è solo il teatro del gran finale del film. È anche la metafora del baratro che divide le classi e le razze in America, e rende la vita sempre più dura, producendo quella forma di ansia e di paura che ha trovato ormai la sua etichetta: “Yuppie Angst”, la paura dello yuppie. Quella che dovrebbe nutrire chiunque abbia visto o letto Il falò delle vanità.
E anche la metafora della situazione di continua insicurezza in cui vive il cittadino americano. Nel “Colossus of Roads” - come Mies van der Rohe chiamava ironicamente gli Usa - se prendete lo svincolo sbagliato vi può capitare di tutto. E quello che sperimenta anche Kevin Kline, che una sera, in una strada isolata, con la macchina in panne, se la vedrebbe brutta se non intervenisse a salvargli la pelle il buon meccanico nero Danny Glover. In compenso sua moglie Mary McDonnell (l”indiana” di Balla coi lupi), mentre tutti si interrogano sull’opportunità di avere figli, sogna un secondo bambino, e lo trova bello e pronto... sotto un cavolo. L’amico di casa, Steve Martin, produttore di violenti film-spazzatura, per contrappasso si becca una pistolettata in una gamba da un balordo che vuole rubargli un Rolex. E il nipote adolescente del buon Glover una sera arriva a casa coperto di sangue (e non sapremo mai perché).
La fotografia dell’individualismo di questi anni e della mancanza di qualsiasi ideale collettivo è precisa. E non c’è dubbio, come auspica Kasdan, che il primo passo per superarli e vincerli sia la buona volontà personale e la generosità nei confronti dei propri simili (soprattutto se un po’ dissimili). Ma Grand Canyon, pur partendo da un tema forte e puntuale, finisce in una gran confusione di buoni sentimenti, vuole dire troppo, mescola troppi registri, compreso quello fantastico. E, tra una cattiva azione e una buona azione, il film scivola irrimediabilmente in un’atmosfera e in una levatura da teledibattito sceneggiato.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996