Cuore selvaggio

Irene Bignardi

Le arbasiniane gite a Chiasso, anche se fatte semplicemente attraverso la lettura della stampa straniera, possono essere molto confortanti. Per chi ha detestato (e, obtorto collo, ammirato) Cuore selvaggio, la sua estetica dell’eccesso, la sua a-morale scherzosa, la sua fiaba perversa, e si è sentito colpevolmente vecchio e isolato nel coro osannante degli ammiratori di David Lynch, è non piccolo conforto scoprire che una voce aperta e sofisticata come il “New York Magazine” etichetta Cuore selvaggio come un orrendo road movie. In stagioni della nostra vita più selettive e ideologiche, il film di Lynch sarebbe stato ignorato come una scemenza di cattivo gusto. Oggi, il fatto che Lynch eserciti il talento dell’invenzione, anche se sul nulla, sembra essere sufficiente per ammetterlo nel pantheon dei grandi. Resta il diritto di non amarlo.
Thriller postmoderno, roadmovie, comic in movimento, commedia nera, love story dell’età del riflusso (il sogno finale del film è una bella famigliola nucleare), Cuore selvaggio ha per protagonisti un Romeo e una Giulietta del profondo Sud americano, Lula (Laura Dern) e Sailor (Nicolas Cage), in fuga verso la California attraverso un universo ossessivo e violento. Dice Lynch che il suo mondo è sempre meglio della realtà. Sarà: giudicate un po’ voi. La cara mammina di Lula (la vera madre di Laura Dern, Diane Ladd) è una megera assatanata che cerca di farsi il fidanzato della figlia nella toilette di un albergo e vuole impedire a ogni costo la loro unione. Il suo debole amante inCarica (Harry Dean Stanton) si presta a mettersi sulle tracce dei fuggitivi. Il suo feroce ex amante (J.E. Freeman) si butta sulla pista di preda e cacciatore con duplici intenti assassini. Un altro cattivone, circondato come in una caricatura bunueliana di puttanelle in giarrettiera e calze nere comandate a bacchetta da un’anziana kapò, procura i sicari. Un depravato Willem Dafoe con i denti corrosi dal tartaro (e un tatuaggio sulla mano a spiegare il suo sadismo con un passato in Vietnam), complice Isabella Rossellini in parrucca bionda e sopracciglioni neri, trascinà Sailor in una trappola. E in una delle scene-choc del film la testa di Dafoe ci esplode sotto il naso, mentre un cagnolino corre con una mano mozza tra i denti. Ma non è finita: i due amanti in fuga, lui vestito come Brando d’una giacca di pelle di serpente, lei praticamente seminuda, incappano, come nel godardiano Weekend, in orribili incidenti d’auto, si raccontano nei dettagli il loro passato sessuale, fanno atleticamente l’amore fra drappeggi in stile Braghettone (forse per evitare una censura che invece ha puntualmente colpito il film per il suo tasso di violenza). E quando Lula gode, come nella miglior letteratura rosa le mani le si tendono nello spasimo, e lui per dichiararle il suo amore le canta Love me tender imitando l’adorato Elvis Presley.
L’universo di Lynch è un raffinato campionario di segnali minacciosi (ogni cerino che si accende tra i rimbombi inquietanti della colonna sonora è ingigantito per rimandare all’incendio che ha ucciso il padre di Lula), di finta innocenza (i due morosi non la smettono di alludere al Mago di Oz, Sailor sogna perfino una fatina), di perversioni sessuali (la mamma di Lula, cattiva come la regina Crimilde, è sessualmente frustrata, l’amica del killer che uccide Harry Dean Stanton si masturba pericolosamente guardandolo morire, Dafoe eccita Lula manualmente e la lascia sul più bello, Lula piccina è stata violentata dall’inevitabile zio). Ma Cuore selvaggio è anche un repertorio di comicità calcolatissima, che gioca sul rimando caricaturale ai modelli cui Lynch fa il verso, sulla risata liberatoria scatenata ad allentare la tensione dopo i colpi bassi che ci vengono inflitti. E mentre la colonna sonora scritta da Angelo Badalamenti provvede a fornire la giusta dose di adrenalina da Dolby system, il direttore della fotografia Fred Elmes inventa luci nitidissime che disegnano minuziosamente il quadro di questo comic sadomaso.
Di fronte a Cuore selvaggio viene voglia di ricalcare il celebre detto ferriniano: non capisco ma mi adeguo. Non mi piace, ma lo ammiro per l’impudico coraggio e l’abilità con cui Lynch, fingendo di raccontare una storia d’innocenza perduta e ritrovata attraverso l’amore, stende in realtà un catalogo delle proprie ossessioni. Peccato che ci sia il rischio vero che qualcuno prenda sul serio lo scherzo di questo brillante cattivo maestro.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996