Crimini e misfatti

Irene Bignardi

Da un autore che ogni anno sforna un film bellissimo (due volte all’anno nei momenti particolarmente fortunati) e che continua a disegnare con intelligenza sopraffina e grandioso divertimento del pubblico il suo universo, è probabilmente sbagliato attendersi ogni volta la riuscita perfetta. E Crimini e misfatti, sotto il suo smalto sempre più elegante e raffinato, non è un film dalla riuscita perfetta.
Al suo diciannovesimo appuntamento, Woody Allen torna a sedersi al tavolo degli adulti, al tavolo dei temi seri (lo dice lui che con la commedia ci si siede solo al tavolo dei bambini). Un tavolo dove si era seduto la prima volta con Interiors dodici anni fa, tornandoci sempre più spesso fino al sottile Un’altra donna del 1988, ma sempre limitandosi ai crimini del cuore.
Questa volta la sua creazione è più ambiziosa e meno felice. Perché Allen non si accontenta di affrontare il crimine per eccellenza, l’omicidio: non solo lo accosta alle piccole infrazioni della vita quotidiana, ma tira in ballo persino Dio. O la sua assenza.
Quando il film è uscito negli Stati Uniti, suscitando anche un acceso dibattito tra teologi, Jack Croll, il critico di “Newsweek”, ha calcolato quanta commedia e quanta tragedia c’è in ogni opera di Allen. Per esempio: in Il dittatore dello Stato libero di Bananas ci sarebbe commedia cento e tragedia zero. In Interiors siamo zero a cento. E ha trovato nel 50/50 di Crimini e misfatti il perfetto equilibrio tra luci e ombre, tra risate elacrime. Questo equilibrio invece non è così perfetto. Perché crimini e peccatucci, tragedia e commedia, sono nel film due mondi che si contrappongono ignorando l’intreccio imponderabile della vita, senza trovare, per esempio, il biend che raggiungevano in Hannah e le sue sorelle.

Il crimine è quello di Martin Landau, ricco oftalmologo ebreo afflitto da un’amante psicolabile (Anjelica Huston) che minaccia di ricattarlo e distruggere il suo matrimonio, e che Landau, con la freddezza degli uomini importanti, deciderà di far eliminare. I misfatti sono quelli del ben noto bestiario nuovayorkese di Allen. Di lui stesso nel ruolo di un documentarista di insuccesso. Di Alan Alda produttore tv volgare e fortunato. Di Mia Farrow che, pur amata da Allen, finisce per cedere al fascino volgare di Alda.
È la sintesi tra i due mondi cattolicamente contrapposti, quello dei peccati mortali e quello dei peccati veniali, èSam Waterston, l’amico rabbino che Allen, cedendo alle seduzioni di una facile metafora, fa diventare progressivamente cieco: perché l’occhio di Dio, secondo la Legge, è l’occhio che dovrebbe vedere tutto. E in questo mondo che si rivela senza Dio, Allen introduce anche un personaggio di filosofo sopravvissuto al lager in cui molti hanno riconosciuto Primo Levi: modello di una sensibilità morale che esce sconfitta dalla corsa al successo e alla sopravvivenza. Ma quasi fosse schiacciato dal gravoso compito di comportarsi bene al tavolo degli adulti, Allen tratta i suoi crimini con distaccata cerebralità e la discussione etica sembra dimenticare che, se Dio non ha occhi, c’è tuttavia forse qualcosa che Kant chiamava la legge morale dentro di noi... Quanto al tavolo dei bambini, Allen commediante esce quasi oscurato dal ritratto logorroico e prepotente di Alan Alda, a cui regala generosamente il personaggio meglio scritto e più memorabile del film.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996