Veronika Voss |
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Un film di Rainer Werner Fassbinder.
Con Rosel Zech, Hilmar Thate, Annemarie Düringer, Peter Berling, Volker Spengler.
continua»
Titolo originale Die Sehnsucht der Veronika Voss.
Drammatico,
b/n
durata 105 min.
- Germania 1982.
MYMONETRO
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il testamento di un artista
di carloalbertoFeedback: 51029 | altri commenti e recensioni di carloalberto |
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martedì 14 luglio 2020 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Estremo, estetizzante, omaggio al cinema tout court, Veronika Voss è un film testamento, l’ultima disperata, angosciata, dichiarazione d’amore alla sua Arte, di Fassbinder, che nello stesso anno di produzione del film, 1982, seguirà la stessa sorte della protagonista, emulandone, finanche nelle modalità, il gesto fatale. In Veronika Voss c’è il preannunciarsi di un progetto segreto ed inconscio, che l’ispirazione artistica libera nella creazione filmica ed, al contempo, una riflessione acuta, drammaticamente vissuta fin dentro le viscere ed il sangue dell’autore, sul ruolo dell’Arte nella società contemporanea, nell’eterna dialettica con il Potere, la cricca dei criminali della clinica neurologica, e le Masse, simbolicamente e non a caso rappresentate dal giornalista sportivo. L’Arte, sotto le spoglie della diva di un tempo, interpretata magnificamente da Rosel Zech, abbandonata a sé stessa, alla ricerca spasmodica ed isterica di un riconoscimento sociale che le restituisca un’identità ed un ruolo perduto nel mondo postbellico, sotto una pioggia scrosciante, in una delle prime memorabili scene, viene soccorsa da un passante, l’anonimo cittadino, l’uomo qualunque della nuova società, che, ignaro di chi ella sia e cosa rappresenti, le offre il riparo di un ombrello. E’ l’illusoria protezione di un porto sicuro che attrae e repelle al naufrago nel mare in tempesta del parossismo artistico. La Mediocrità, d’altra parte, non è in grado di accogliere, né di comprendere, un’anima così grande, persa nella nostalgica farneticazione di un mondo mai esistito così come immaginato, in cui, in realtà, l’asservimento complice del Cinema al Potere ha creato i presupposti per la macellazione in serie dei campi di sterminio. Il giornalista dappoco, che scrive poesie di nascosto, vedrà nella grande attrice del passato l’occasione di riscatto della sua vita, da vivere fino in fondo, per sfuggire alla frustrazione di una esistenza squallida e di un mestiere scelto per ripiego. I due, nel fraintendimento delle reciproche aspettative, rappresentano l’impossibile incontro tra l’Arte e le Masse, due mondi divisi da un muro insormontabile.L’Arte finisce succube dei carnefici, i cinici profittatori, i sopravvissuti del nazismo ancora all’opera che si sono rifatti una verginità con nuove rispettabili professioni sotto l’ala protettrice dell’americano, il soldato di colore che arrotola sigarette nel biancore accecante degli ambienti asettici del laboratorio-cucina, dove l’alchimia tecnologica sperimenta nuove forme di controllo psichico spacciandole per innocui e naturali nutrimenti dello spirito, metaforicamente simboleggiati dal latte nel suo candore di puro alimento infantile. L’uomo qualunque non ha la forza di contrastare il Male, non riuscirà a strappare l’Arte al suo destino, potrà assistervi impotente, rimanerne sconvolto, ma subito dopo tornerà al tran tran del suo lavoro. Il suo è stato un sogno, è entrato come tutti nella fabbrica dei sogni, ma dall’unica porta obbligata per le masse, quella dello spettatore falsamente partecipe alla tragedia e perciò indifferente. Il cinema è un gioco di luci e di ombre, dice un personaggio, e le luci sono le protagoniste di questo film, scintillanti nei flashback, per abbagliare e nascondere il vero, oppure, nel contrasto con l’oscurità della notte, per rendere vivi e palpitanti gli alberi nel parco. L’utilizzo dell’iride per staccare da una scena, introducendone un’altra, è un chiaro omaggio al cinema muto di David Griffith. Il personaggio di Veronika Voss richiama alla mente la Norma Desmond di Viale del tramonto di Wilder ed, in alcuni momenti, la Lola dell’Angelo Azzurro di von Sternberg, ma con esiti opposti, perché l’Arte ormai ha perso il suo potere seduttivo e non conduce più alla pazzia, traviando l’uomo normale, ma, priva di fascinazione ed incapace di confrontarsi con la routine della banale quotidianità delle Masse che disprezza, è attratta soltanto dagli assoluti, dal Male personificato nella banda degli ex nazisti, mentre nella piccola stanza in cui è confinata dal Potere, risuona l’altro Assoluto, con le campane della messa officiata dal papa a San Pietro. Morta l’Arte, il travet della metropoli globalizzata si volta dall’altra parte, china il capo e ritorna, novello servo della gleba, al vomere assegnatogli dal sistema. L’Arte, tra l’impossibilità di comunicare con le Masse ed il preannunciarsi di un nuovo asservimento al Potere, sceglie la morte, come coerentemente farà lo stesso Fassbinder.
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