Vigilato speciale

   
   
   

boDustin Hoffman si sente Max Dembo Valutazione 3 stelle su cinque

di Gianni Lucini


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lunedì 14 novembre 2011

L’impronta filmica di Vigilato speciale oscilla tra le atmosfere del noir e l'indagine sociologica, come d’uso nel cinema degli anni Settanta. Il film è la trasposizione del romanzo “No Beast So Fierce”, pubblicato in Italia per la prima volta nella collana “Il Giallo Mondadori” con il titolo “Come una bestia feroce”. Il suo autore è Edward Bunker, che appare anche in una piccola parte. Il film è prodotto dalla First Artists, la società collettiva di produzione messa in piedi da una lunga serie di attori hollywoodiani di cui fa parte anche lo stesso Dustin Hoffman. L’attore per un po’ di tempo aveva insistito perché la società  producesse un film con Ingmar Bergman, e i suoi amici nonché compagni d’avventura avevano non poca fatica a convincerlo che negli anni Settanta il regista svedese stava attraversando un periodo piuttosto difficile dal punto di vista commerciale negli Stati Uniti. Archiviato il progetto con Bergman quando Hoffman propone di ridurre per il grande schermo il romanzo autobiografico di Edward Bunker accettano senza troppe discussioni. L'attore è profondamente suggestionato dalla storia dell'ex detenuto che, dopo aver cercato di reinserirsi nella società statunitense e rischiato di venire stritolato dagli ingranaggi, torna sui suoi passi evidenziando le rigidità e gli abusi del sistema nei confronti degli ex criminali disponibili a redimersi. È dal 1972 che Hoffman periodicamente tenta di convincere qualche produttore a realizzare questo progetto. Nel marzo del 1977 finalmente iniziano le riprese di Vigilato speciale. A dirigerle c’è lo stesso Dustin Hoffman, per la prima volta nel ruolo di regista, in collaborazione con Michael Mann, a quel tempo giovane e talentuoso aspirante regista. La First Artists gli ha dato carta bianca ma i fondi a disposizione, pur consistenti non sono illimitati. Dopo alcune settimane di riprese Hoffman annaspa: una bella fetta del budget se n’è andata e il materiale girato non lo soddisfa per niente. In difficoltà evidente decide di passare la regia a qualcun altro e chiede aiuto a un vecchio amico come Ulu Grosbard, che lo ha diretto sia in teatro che al cinema in Chi è Harry Kellerman e perché parla male di me?. All’inizio Grosbard tentenna. Conosce il carattere spigoloso di Hoffman e teme i rischi di subentrargli in un lavoro da lui iniziato. Alla fine decide di accettare. Come previsto i due si azzufferanno spesso e i litigi termineranno soltanto alla fine della lavorazione, ma il film sembra non sembra risentire delle vicissitudini attraversate.
Dustin Hoffman si è innamorato del personaggio di Max Dembo fin dal primo momento in cui l’ha incontrato sulle pagine del libro di Edward Bunker. Lo ha voluto portare sullo schermo e lo sente un po’ come una sua creatura. La sua interpretazione è soprattutto fisica. Fin dalle prime sequenze il suo modo di muoversi, di camminare, i capelli lunghi e i baffi cadenti danno quasi l’idea di una predestinazione a un percorso complicato. Per disegnarlo Hoffman pesca nel suo bagaglio personale le caratteristiche degli eroi disadattati a cui ha dato vita fino a quel momento, ma li inserisce in un quadro malinconico, in una sorta di rassegnazione crepuscolare. Dopo pochi minuti si ha l’impressione che la redenzione e il reinserimento non funzioneranno. Il suo corpo, nervoso e incerto quando è intrappolato negli angusti spazi della società ordinata e organizzata, ridiventa armonico e sciolto quando si muove al di là del limite della legalità. Dustin Hoffman usa il corpo per far arrivare allo spettatore l’evolversi della condizione interiore di Max Dembo, lasciando alla recitazione verbale soltanto un compito marginale, di contorno. Non sono le angherie di un giudice più prepotente che sadico a provocare il suo ritorno sulla strada del crimine, ma la difficoltà di vivere in una società che non lo vuole più. Hoffman cerca di rendere la crescita della consapevolezza dell’esclusione caricando progressivamente il corpo di impedimenti motori, quasi che lo spazio gli si stesse restringendo pian piano intorno. È come se fosse chiuso in una scatola sempre più stretta. Mani e gambe diminuiscono l’area in cui si muovono e i movimenti appaiono progressivamente più incerti. La cappa opprimente scompare a partire dall’esplosione d’ira contro il Earl Frank. Da quel momento i movimenti si fanno frenetici, la sua creatività criminosa diventa geniale e nessuno spazio può riuscire a contenere la sua rabbia. È il corpo di Hoffman che racconta tutto ciò, non la sua voce.

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