Scintilla come due spade che s’incontrano nell’aria. È l’opera prima di Ridley Scott (da un racconto di Joseph Conrad), che prende le mosse da un futile motivo d’onore offeso divenuto un duello lungo oltre quindici anni, dalla presa del potere di Napoleone (1800) sino al principio della Restaurazione (1816). Una sfida protratta nel tempo fra due tenenti ussari: l’instabile arrogante Gabriel Féraud (Harvey Keitel) e il misurato compìto Armand D’Hubert (Keith Carradine).
L’opposizione di due caratteri, due visioni, due mondi, capaci d’incontrarsi soltanto in punta di lama, nella foga di un duello che il regista Scott sa rendere con abili e scattanti controcampi, in perfetta armonia con i fendenti scoccati sin dal primo memorabile scontro a Strasburgo, nel cortile della casa di Féraud, allorché a esser ferito è proprio il padrone di casa.
Ma è solo l’inizio di un dualismo che scivola negli anni e nei luoghi, divenendo ossessione per il tenente Féraud e ferace assillo per il suo opposto D’Hubert. Davanti agli occhi non abbiamo che queste due figure, mentre tutto il resto scorre sullo sfondo, là dove ogni cosa sfuma nell’indistinto agglomerato dei fatti grazie ai controluce che Ridley Scott costruisce con perspicace sapienza visiva attorno ai contorni dell’unico fatto che interessa: il duello Féraud/D’Hubert.
Due uniformi che si ritroveranno l’anno seguente, ad Augusta: prima, nel giardino di una tenuta di campagna, D’Hubert verrà ferito al petto e non potrà continuare; quindi, all’interno di una stalla, dove il cruento combattimento si allunga fino allo sfinimento dei due sciabolatori, fermati dal pubblico che attende al duello.
Due uomini ormai compromessi, inestricabilmente avvinti da un legame d’acciaio che ne ha mutato gli sguardi. E pur se il morigerato D’Hubert tenta in ogni modo di fuggire l’ennesimo vis à vis, l’incidentale incontro in una taverna di Lubecca (1806) lo costringerà a incrociare di nuovo lo sguardo del nemico. Stavolta la contesa è a cavallo. Stavolta D’Hubert diventa Féraud: lo scellerato sfidante finisce a terra, colpito alla fronte dall’impeto esplosivo di chi vuol chiudere la partita.
Ma il duello non potrà finire che dinanzi alla morte di uno dei due. Quel fantasma mortifero che ritorna sei anni più tardi nel bianco deserto della campagna di Russia, quando soltanto la minaccia dei cosacchi unirà gli intenti e le traiettorie delle pistole dei soldati Féraud e D’Hubert. La Storia s’intromette. E lo farà anche al loro ritorno in patria: la carriera di Armand D’Hubert marcia al servizio di re Luigi XVIII, quella di Gabriel Féraud si disfa in parallelo all’abisso del suo Imperatore.
D’Hubert diventa capitano e poi generale; Féraud finisce nella lista di coloro destinati alla ghigliottina. Ma anche il generale D’Hubert ha un suo codice d’onore, l’onore di chi riconosce la dignità altrui, perfino quella di un ostinato rivale come Féraud, per il quale chiede e ottiene la grazia presso il potente ministro della Polizia francese, Joseph Fouché (Albert Finney).
Il duello però galleggia ancora nel tempo e non v’è nulla che possa placare l’ardire di Féraud. Sino all’epilogo di Tours (1816), allo scontro finale fra i ruderi di un castello: pistole alla mano e due cartucce ciascuno. Féraud esaurisce le sue, D’Hubert ha ancora un colpo in canna, e decide: decide con onore di dichiarare defunto l’avversario e prendersi così la sua vita. Decide che l’ottusa impenitenza di chi sfida il mondo sia giunta all’ora della sua livida morte.
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