Come detriti trasportati lungo un fiume, si affastellano le storie di ventiquattro personaggi cui Robert Altman concede medesimi spazio, peso e libertà d’azione. Il procedere incontrollato di uomini e donne che si muovono nell’orizzonte di Nashville (Tennessee) e di un atteso festival di musica country.
Un festival preannunciato da una (finta) sigla interna al film nella quale scorrono i profili patinati di chi ritroveremo poco a poco nelle imprevedibili intersezioni di aspiranti artisti, comuni cittadini, divi affermati come Barbara Jean (Ronee Blakley) e Haven Hamilton (Henry Gibson), giornalisti superficiali (Geraldine Chaplin), fan ossessionanti, ragazze in cerca di fama, giovani confuse (Shelley Duvall), cantanti sulla cresta dell’onda come Tom Frank (Keith Carradine), cricche politiche che spingono per l’elezione presidenziale del reazionario Hal Philip Walker (continuamente evocato ma mai in scena).
Ed è proprio la martellante voce diffusa dall’altoparlante di un camion per la campagna presidenziale di Walker a infilarsi nelle nostre orecchie sin dal principio, voce tra le voci che si accumulano l’una sull’altra in una dissonante partitura, accavallandosi a dialoghi e rumori di fondo in un sincretismo sonoro che riporta in vita l’effetto disturbante con la sovrapposizione (overlapping) di più piste sonore che Altman mise già in scena con il capolavoro M.A.S.H.
Suoni e situazioni si scivolano addosso come pietre sul greto di un fiume, intersecandosi nell’universo di Nashville e facendo perno su quelle canzoni spesso lasciate all’interpretazione degli stessi attori, come accaduto per quella I’m Easy con cui il fascinoso Keith Caradine/Tom Frank si rivolge segretamente alla madre di famiglia Linnea Reese (Lily Tomlin), mentre altre tre donne pensano che il testo sia rivolto a ciascuna di loro.
L’esemplificazione di un modo di giocare del regista americano: con la materia filmica, con l’establishment cinematografico, con noi spettatori, con la sua troupe (lasciata spesso libera di agire secondo il gusto dell’improvvisazione gestuale). È proprio l’ironia graffiante che sa strapparci tante piccole risate a fare di Nashville qualcosa di grande nella sua indefinibilità. Qualcosa che nel suo muoversi disordinato e caotico sembra non approdare da nessuna parte.
Ma mentre viaggiamo confusi in una storia senza veri protagonisti (che pure abbiamo egualmente fatto nostri), mentre tutto scorre all’apparenza slegato, riusciamo a cogliere degli eterei punti di saldatura, dei contatti che diventano conatus dilagante nell’oceano liberatorio del Partenone di Nashville, nel parco dove il festival si svolge all’ombra dell’imponente alter ego di gesso del tempio ateniese. Sotto le colonne di un kitsch addobbato con ciclopici manifesti politici per la candidatura presidenziale di Hal Philip Walker, mentre tutti i personaggi vi confluiscono: chi per cantare, chi per guardare, chi per uccidere l’icona Barbara Jean che s’esibisce sul palco.
E in quello sparo si risolve ogni precedente ambiguità, si dissolve la confusione di una messinscena che dirupa oltre lo schermo del cinema e al ritmo di It Don’t Worry Me – cantata dalla sperduta Albuquerque (Barbara Harris) e ripresa dall’intero pubblico – piomba nella realtà per gridare tutte le convulse contraddizioni di un Paese che canta, ride, piange, ringhia, briga, mente, crede. E che in fondo è soltanto il riflesso dell’intero garbuglio umano che si scontra e si incontra nel lattiginoso cielo di Nashville.
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