Lenny

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Fece della spregiudicatezza un biglietto da visita Valutazione 3 stelle su cinque

di Great Steven


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venerdì 3 febbraio 2017

 

LENNY (USA, 1974) diretto da BOB FOSSE. Interpretato da DUSTIN HOFFMAN, VALERIE PERRINE, STANLEY BECK, GARY MORTON, JAN MINER

Lenny Bruce, all’anagrafe Leonard Alfred Schneider, ebreo americano di famiglia yiddish, fu il comico più trasgressivo, dirompente e rivoluzionario che l’America degli anni ’50 e ’60 conobbe sui palcoscenici dei night-clubs e dei locali notturni. Fin dai primi tempi in cui si avvicinò al mestiere dell’attore, lui, figlio di un’attrice di varietà che gli fece fare il suo debutto in modo tanto rocambolesco quanto intimidatorio, quando ancora cercava di crearsi una precisa identità di artista, contraddistinse il suo operato toccando argomenti sociali e inserendo nelle sue esibizioni tematiche scottanti di cui all’epoca si parlava poco o per nulla, arrivando ad accusare e, molto sovente, anche a mettere all’indice quelle categorie di cittadini statunitensi, rappresentanti delle istituzioni, ecclesiastici e uomini politici che facevano della corruzione e dell’ipocrisia una regola di vita. Sposato con la spogliarellista Honey, da cui poi divorziò poco dopo la nascita della figlia Kitty, ma non senza averne fatto la sua insostituibile musa ispiratrice, Lenny non fu sempre un uomo baciato dalla fortuna: spesso al verde e precipitato insieme alla consorte nell’inferno della droga a causa delle cattive compagnie dei musicisti tossicodipendenti, per certi periodi dovette arrangiarsi presentando strip-tease in locali di terz’ordine e accettando i lavori che capitavano. Ma nei suoi numerosi momenti di gloria, Bruce seppe coinvolgere tutti i suoi spettatori grazie ad alcune armi inimitabili: una parlantina micidiale, un’acutezza di sguardo davvero con pochi eguali, una lucidità di spirito ammirevole e, soprattutto, la spregiudicata mancanza di paura di puntare il dito contro il muro di spocchia e bigotteria che attanagliava silenziosamente la psicologia statunitense di allora. Arrestato un mucchio di volte per detenzione di stupefacenti, ma soprattutto per il linguaggio osceno adoperato nei suoi sketch, Lenny non si perde d’animo nemmeno sotto processo, al contrario: sfruttò i procedimenti giudiziari cui venne sottoposto per alimentare la sua fama ed erigersi a paladino dei diritti comuni, ingiustamente incriminato e preso di mira dall’ordine costituito. La sua personalità refrattaria alle critiche e certamente anarchica gli causò non pochi guai, fino a spingerlo a commettere un suicidio dopo l’ultima apparizione in pubblico che concluse, visibilmente strafatto di droga, dicendo con mestizia: «Mi dispiace, non sono divertente». Ricostruiscono le tappe salienti della sua breve e tormentata esistenza la moglie Honey (che passò un lungo periodo in un istituto correzionale per tossicodipendenza, mentre il marito allevava la loro figlia), l’agente Artie Silver (che gli fu vicino fino all’ultimo, senza mai tradire la loro amicizia) e la madre, contraria alle scelte avventate del figlio, ma invariabilmente affezionatagli e strasicura del suo non comune talento di affabulatore, intrattenitore di platee e oratore impareggiabile. Quello che salta subito all’occhio di questo bio-pic assolutamente non tradizionale per come diverte e fa riflettere con profondità al tempo stesso, è l’immensa contro-usualità del ruolo affidato all’attore protagonista. Mi spiego meglio: siamo o no abituati a vedere Hoffman, fin dagli esordi della sua brillantissima carriera, impegnato in parti di uomini sfortunati, costretti a lottare per scopi magri, perseguitati per le loro stesse azioni o comunque inguaiati, anche a livello psicologico? Almeno per quanto concerne il quarto punto appena elencato, l’abitudine non si contraddice: eppure Hoffman, sebbene interpreti quello che a tutti gli effetti è un suo collega (!), con tutte le sue inquietudini e i suoi cavilli in testa, riesce a dare un’eccellente prova recitativa malgrado esca dai canoni abituali, e trovandovi anzi linfa creativa per ampliare il suo repertorio e consegnare al pubblico un ritratto sofferto e lodevole di un uomo che voleva a tutti costi reintrodurre, almeno per quanto concerne l’universo dello spettacolo, la libertà e la potenza della parola. E proprio la parola si affianca ad Hoffman come indiscussa protagonista del film di B. Fosse: che sia pulita o che faccia parte del turpiloquio, è essa l’essenza, l’acqua della vita, il fulcro attorno a cui gira un film drammatico che si prende alquanto sul serio, ma senza mai perdere di vista l’obiettivo di restituire dignità ad una figura attoriale e specialmente artistica che, senza quest’opera cinematografica, sarebbe caduta nel dimenticatoio e non avrebbe quindi ricevuto la giusta riabilitazione che meritava. Ottima la scelta di girare la pellicola in bianco e nero, e non soltanto perché questa decisione cala meglio le immagini nell’atmosfera di un’America ancora troppo moralista e bacchettona, ma anche perché approfondisce con maggior acume le psicologie del personaggio principale e di tutti gli altri che gli si muovono intorno ed accanto, determinando, per volontà sua o a sua insaputa, i traumi e le gioie che si ritrovò a trascorrere. Nella speranza di riuscire sempre e comunque a divertire chi lo ascoltava e senza guardare in faccia a nessuno, ridendo a bocca aperta davanti all’enormità di gente che non lo comprendeva e che lo mise nei pasticci impedendogli di fare quello che, a tutti gli effetti, era un lavoro, ma pure una passione che non nascondeva un’arte abile, eloquente e magnifica. Doppiaggio magistrale di Gigi Proietti per Hoffman. Gradevoli musiche jazz accompagnano i monologhi di Lenny Bruce. Uniche note stonate: gli eccessi di silenzi ridondanti soprattutto nella prima parte, quando scorrono immagini mute senza che nessuno intervenga verbalmente, che peccano qua e là di inopportuna lentezza.

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