L'imperatore del Nord

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Un film di Robert Aldrich. Con Ernest Borgnine, Lee Marvin, Keith Carradine, Lance Henriksen Titolo originale Emperor of the North. Avventura, durata 118 min. - USA 1973.
   
   
   

Un'avvincente vicenda sociale Valutazione 3 stelle su cinque

di johngarfield


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domenica 20 novembre 2011

Questo film di Aldrich è, a mio avviso, uno dei più significativi del regista. Per diverse ragioni.
La prima è che non si tratta dell’ennesimo confronto tra il rappresentante del Bene  e quello del Male. Del resto, è una caratteristica del regista quella di non appiattirsi su storie banali fra buoni e cattivi: a ben guardare, in nessuno dei suoi film questo, in senso stretto, avviene.
In effetti, i due protagonisti si trovano su campi avversi, ma la loro “scorza” è la stessa. Gente dura, che tenta di sopravvivere in un mondo ostile, pieno di trappole, dove oggi sei seduto e domani ti ritrovi col sedere per terra.
Da una parte Shack, il capotreno, un bestione duro che sembra fare una questione personale della lotta ai vagabondi che viaggiano clandestinamente sul suo treno.
Dall’altra, c’è A-Number One, un vagabondo rotto a tutte le esperienze, che sopravvive di piccoli furti e scommesse, come quelle di viaggiare sui treni clandestinamente.
Il loro è un confronto, durissimo, spietato. Ma si indovina un certo rispetto reciproco. Per Shack è una questione d’orgoglio personale: la sua è una vita segnata dalla routine su treni. Il motivo di questa ostinazione nel perseguitare i clandestini sta tutta nel ritenersi padrone assoluto del mezzo a lui affidato. Non gli interessano le ragioni di tanti poveracci che cercano di viaggiare sui treni, sfidando la legge, per racimolare qualche soldo vinto scommettendo su se stessi. Shack (Un curioso forse incrocio tra Shack= Baracca e Shag= Straccio ruvido) rappresenta un potere, un’autorità ottusa, cocciuta, incapace di vedere oltre i propri angusti orizzonti. Ma questo suo atteggiamento denota anche una sorta di accettazione dell’altro; egli accetta la sfida, convinto delle sue buone ragioni, ma consapevole che, facendo così, entra anch’egli nel gioco. Sa bene che i vagabondi rischiano la pelle pur di vincere una scommessa ed egli entra in campo diventando giocatore egli stesso: ma dall’altra parte.
Nessuno riesce a farla franca quando c’è lui, nessuno, tranne A-Number One: Shack (Ernest Borgnine) usa tutti i mezzi, i trucchi e le furberie per scoprire dov’è e costringerlo a gettarsi dal treno, ma A-number One (ottimamente interpretato da Lee Marvin) è altrettanto abile nel trovare sempre nuovi stratagemmi per non farsi scoprire.
Questo confronto andrebbe inquadrato in un panorama più vasto che è quello della Depressione degli anni Trenta negli Stati Uniti. Centinaia di migliaia di lavoratori a spasso, un’economia allo sbando, una società che si è trovata improvvisamente povera, disoccupata, senza speranze immediate se non il piatto di minestra della mensa dei poveri.
Non c’è lavoro, non c’è nessuno che faccia credito o prestiti. Nella massa di tanti disoccupati e disperati ci sono gruppi di ex-lavoratori che vivono di espedienti, piccoli furti, scommesse.
Non c’è più nulla da sperare. Tanto vale rischiare la vita (ma quale vita?) per raggranellare una gallina, magari, o un paio d’uova, da dividere con gli altri. Una massa di vagabondi, senza fissa dimora che vaga qua e là, sempre nell’intento di sconfiggere un durissimo nemico: la fame. 
E’ in questo terribile ambiente che si sviluppa la storia. A-Number One ha qualcosa in più. Ha cuore, cervello e classe. Rappresenta la classe degli emarginati, i vagabondi, i diseredati, i dimenticati. Loro vedono in lui il loro leader, giocano e scommettono su di lui, è il simbolo del riscatto, della rivincita del debole sul forte.
Marvin è la gente, siamo tutti noi; Shack è il Potere, l’Autorità che schiaccia i deboli e protegge i forti.
Shack, pur incarnando l’Autorità, è costretto a passare gran parte della sua vita sul treno. Il suo lavoro è anche la sua schiavitù. Egli si trova come ingabbiato, costretto a vivere su un mezzo mobile che, in luogo di simbolizzare la libertà si caratterizza come vera e propria gabbia mobile.
La sua mancanza di libertà lo rende furioso: perciò vede con ira crescente i gruppi di vagabondi che invece, pur nella loro miseria, vivono una vita da uomini liberi. La libertà è un bene così prezioso che egli glielo vuol togliere. Non può sopportare che altri godano di una prerogativa che egli non può avere. La rabbia di Shack è dovuta soprattutto alla consapevolezza della propria limitazione (paradossalmente rappresentata da un mezzo mobile che lo fa viaggiare in lungo e in largo attraverso immensi spazi).
Ma non solo.
Quando, nel finale, finisce giù dal treno, egli urla con tutta la forza l’appellativo che per lui rappresenta l’ultimo gradino della specie umana e cioè: Vagabondo!
In quel nome c’è tutto e il suo contrario. Vagabondo, nell’universo ristretto di Shack, è ciò da cui egli si è tirato fuori, è la peggiore condizione possibile. Shack ha origini umili, le stesse dei vagabondi. E’ consapevole che da loro lo separa solo quel treno, e sa bene che se non rispetta a puntino le direttive dei superiori, molto probabilmente ritornerà ad essere uno di loro.
Da qui il suo disprezzo nei loro confronti: ritornare ad essere un vagabondo significherebbe il fallimento totale.
L’urlo “Vagabondo” ripetutamente è come una forma di esorcismo sociale e personale. La sconfitta patita da A-Number One rischia di precipitarlo ancora in mezzo alla feccia da cui era riuscito ad emergere.
Non è un semplice confronto personale quello di Shack con A-Number One: è una lotta per non soccombere socialmente, è un duello per restare a galla.
Opposto è il discorso su Marvin: egli è fiero della libertà, la considera un elemento irrinunciabile. Sfidare Shack significa riproporre, ogni volta che vince, il valore della propria indipendenza, liberata da ogni costrizione autoritaria esterna. Marvin è il campione rappresentativo di intere masse lasciate a se stesse da una crisi economica e finanziaria che finisce per premiare, ancora una volta, chi ha le leve del vero potere.
Marvin non è un cane sciolto, non è un “wild one” e nemmeno un elemento asociale che vive di continue sfide insensate e rischiose. Egli è cosciente della propria condizione e scientemente accetta e propone sfide contro l’autorità rappresentata dal treno e dal suo guardiano. Sfidare il treno lo rende vivo, dà un significato ad una vita che altrimenti sarebbe una non-vita. Ma oltre ad una questione tutta personale di autogratificazione, consapevole della sua intelligenza e della sua abilità, decide di metterla a disposizione dei suoi simili. Offre loro, a cui è negata ogni speranza, una sorta di riscatto morale. Dimostra loro che è possibile battere il treno, sconfiggere le forze che ci sono dietro, aggredire e vincere il capitale sul suo terreno.
E’ inutile nascondere una verità lampante: qui ci troviamo di fronte ad una chiara presa di posizione “politica” di Aldrich.
Sono le storture del capitalismo selvaggio, le “bolle finanziarie” dissennate (che noi oggi conosciamo bene anche sulla nostra pelle) ad avere buttato sul lastrico masse intere di lavoratori. Non è solo Nixon (il presidente ai tempi delle riprese del film) il responsabile. Nixon è solo l’ultimo portavoce di potentissime “lobbies” che fanno il bello e il cattivo tempo nella vita sociale degli americani (e non solo).
Interessante, a questo punto e in quest’ottica, analizzare il personaggio di Cigaret (Keith Carradine).
Si tratta di un giovanotto che improvvisamente compare e sfida il n°1. Non si sa chi sia né da dove venga. Si indovina solo una enorme sfrontatezza, una sbruffoneria, una cialtroneria che lascia di stucco i suoi compagni.
Pur vivendo con loro, arraffando quello che si può, soffrendo patimenti, fame e freddo, questo giovanotto non ha nulla a che spartire con loro.Egli vuol diventare il n.1, spodestando Marvin, vuole essere portato in trionfo, festeggiato, adulato. In lui c’è ambizione sfrenata ma nemmeno un briciolo di solidarietà con i suoi compagni di afflizione. Non c’è la cultura della sobrietà, dell’umiltà, compagne indispensabili per una riflessione matura della propria condizione sociale.
Egli vuole arrivare subito, sia come sia, senza curarsi dei mezzi, senza scrupoli.
Egli è il vero cane sciolto, il vero intruso. Sempre pronto a ricevere e mai a dare, sempre pronto a impossessarsi dei trucchi e furberie altrui senza passare prima per un cammino personale di esperienza fatto di sconfitte ed umiliazioni.
Sempre pronto a sfruttare l’aiuto, la solidarietà degli altri e altrettanto pronto a negarli quando ce ne sarebbe bisogno.
Mentre nei suoi simili, nei suoi compagni di sventura, c’è coscienza di classe, senso di solidarietà, desiderio di riscatto collettivo, in lui nulla c’è di tutto questo.
Per questo, paradossalmente, egli diventa un nemico altrettanto pericoloso quanto Shack.
Se vogliamo utilizzare una terminologia più propria, potremmo dire che Shack rappresenta il capitale, Marvin e le masse di vagabondi rappresentano il proletariato e Cigaret il sottoproletariato.
Queste masse di vagabondi, che secondo la dottrina marxista ortodossa, dovrebbero rappresentare il sottoproletariato, qui denotano alcune caratteristiche che le rendono socialmente diverse. Hanno un barlume di coscienza di classe, ad esempio. Possiedono sufficiente capacità organizzativa, pur senza essere sindacalmente inquadrate (d’altro canto sarebbe impossibile, vista la loro situazione di disoccupazione); forse sono disoccupati cronici ma non per libera scelta. E’ una condizione, la loro, derivante dalla perdita del lavoro e non certo perché si tratta di sfaccendati o fannulloni buoni a nulla: si tratta quindi, nel linguaggio sociologicamente proprio, di proletari.
Cigaret, invece, incarna, il volto del sottoproletariato. Insofferente della disciplina, dell’organizzazione, dello spirito di solidarietà e di classe. Pronto a vendersi al miglior offerente, a tradire i compagni pur di salire in fretta gradini più alti della scala sociale.
Mentre, nei confronti di Shack, Marvin ha un atteggiamento di sfida e di sostanziale rispetto, pur misurandosi con lui in confronti potenzialmente mortali (ma entrambi hanno un sostanziale rifiuto della violenza estrema), con il giovane Cigaret Marvin mostra un insolito disprezzo. Mentre lo getta dal treno, Marvin usa parole che andrebbero scolpite per la loro straordinaria precisione ed efficacia: “Ragazzo, tu non hai classe! Torna alle stalle, ragazzo; torna a rubare i polli. Tu non diventerai mai l’imperatore del Nord. Ne avevi la stoffa, ragazzo, ma non il cuore! E si muore! Tu sei tutta ambizione e corpo, nemmeno sai che cos’è il sentimento.Piglia un piattino e vattene in giro. Fa l’accattone. Va di porta in porta ad elemosinare. Fatti commiserare con la tua storia strappalacrime!”.
In tutto il film, Marvin non ha mai parlato così tanto. Stavolta lo fa. Lo fa da vincitore. Ha riscattato ancora una volta i suoi simili. Ha ottenuto ancora una volta, forse definitiva, una vittoria che lo inorgoglisce come uomo e come animale sociale. Ma non può esimersi dallo sputare tutta l’amarezza che ha in corpo verso il giovane che per un po’ aveva pensato di allevare, crescere e  a cui forse consegnare la propria eredità fatta di orgoglio, sudore e sentimento. Marvin fa leva su queste due parole: cuore e sentimento. Senza queste due qualità non c’è crescita, non c’è onore, non c’è merito.
Quando Marvin usa la parola “Classe”, lo fa dando una connotazione sociale. La classe è la coscienza di classe, della propria condizione. Quando poi lo invita a tornare a rubare i polli, si tratta in realtà della bocciatura sociale. Deve tornare indietro per imparare, per acquisire con il sacrificio e l’umiltà la coscienza sociale necessaria. Essere imperatore del Nord significa allora essere leader riconosciuto e rispettato dai compagni di povertà, significa essere dotati di abilità e talento ma anche di sicura e solida coscienza di classe.
Essere imperatore del Nord non vuol dire fregiarsi di un titolo prestigioso quanto effimero per blandire la propria vanità. Vuol dire soprattutto avere le qualità per rappresentare i propri simili.
Accanto alla giusta rivendicazione dei propri diritti, alla lotta per ottenerli, Aldrich ritiene che si debba farlo con cuore e sentimento e questo riguarda il prossimo: i suoi compagni, prima di tutto ma poi anche l’avversario. Occorre rispetto anche nei suoi confronti. Nel confronto finale, Marvin impugna un’ascia e potrebbe calarla su Shack. Invece la usa per spingere Shack giù dal treno. Ora il treno appartiene a A-Number One, ai vagabondi, agli emarginati, ai dimenticati. Sia solo per poche ore, la macchina ce l’hanno quelli come Marvin. Ma su di essa possono salire solo coloro che hanno cuore e sentimento, un po’ come dire che solo coloro che sanno unire alla giusta rivendicazione sociale il rispetto e la solidarietà per i compagni e per gli avversari potranno cambiare veramente la società.
L’anno prima, nel 1972, Aldrich aveva diretto “Nessuna pietà per Ulzana”: esemplare scontro fra due civiltà, che sottendeva in realtà al pesante coinvolgimento americano in Vietnam. L’anno successivo, nel 1974, Aldrich dirigerà “Quella sporca ultima meta”, un’altra parabola della lotta fra potere e un altro imperatore del Nord.
Sono questi gli anni ruggenti di Aldrich, quelli cioè dove appare chiara la sua posizione politica nei confronti di un sistema corrotto che egli denuncia, attraverso l’uso sapiente dell’allegoria.
Questi film, pur non letti secondo l’orientamento socio-politico cui si è fatto riferimento, sono molto interessanti per il loro indubbio valore intrinseco, miscuglio indovinato di sapienza nel raccontare, dialoghi sempre sopra la media e stile visivo mai banale.
 
 

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