La grande abbuffata

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Un film di Marco Ferreri. Con Ugo Tognazzi, Michel Piccoli, Marcello Mastroianni, Philippe Noiret.
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Titolo originale La grande bouffe. Commedia, durata 125 min. - Italia, Francia 1973. - Cat People uscita lunedì 11 dicembre 2023. MYMONETRO La grande abbuffata * * * 1/2 - valutazione media: 3,76 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

Il corpo è il mostro delicato Valutazione 5 stelle su cinque

di Vincenzo Carboni


Feedback: 612 | altri commenti e recensioni di Vincenzo Carboni
domenica 26 giugno 2011

 Michel che scorreggia come una Bugatti, ecco la prima immagine che pesco tra le tante: corpi già morti, che percepiscono il proprio essere morti, e che per questo affrettano il proprio decomporsi, il proprio finirsi, accanirsi ad una fine ulteriore (ce n’è –bontà nostra- sempre un’altra nella nostra pretesa supposizione di immortalità, che pure ci permette di vivere), per misurare lo iato tra il sostare sulla soglia e attraversarla. Film difficile questo di Ferreri su cui scrivere. Ci lascia muti, assenti, senza scrittura, perché la morte è qualcosa che non si può scrivere, non possiede parola né cifra; è il buco, l’orifizio che tutto ingoia come in un gorgo virtuoso e allo stesso tempo inesorabile, contro cui il linguaggio non può più scivolare, allungarsi, distendersi, ma può solo arrestarsi contro ogni naturalezza percepita del vivere parlante. In questo film non si parla; la bocca è occupata dal cibo, la lingua è strumento deputato a trascinare giù il cibo, tanto che la parola –uscendo dall’orifizio opposto al cavo orale- si fa significante puro abdicando ad ogni proditoria illusione di significato, si fa –appunto- scorreggia, nel migliore dei casi balbettio, suono labiale o –appunto- anale, sfinterico. Lo spirito di morte freudiano non si scrive perché agisce contro la lettera, anzi si fa lettera ma come quella di certi stemmi araldici, in cui la cosa evidententemente certa è il resto di enigma che posseggono, contro cui non vale nulla tentare di giungere ad un soluto perché si tratterrebbe di accedere ad un altro enigma, e poi un altro, fino a considerare pura illusione l’idea stessa di arrestare la deriva. Di fronte all’enigma, il tentativo di sfondarlo, di penetrarlo, di aprirlo, e poi esserne respinti, non produce altro che godimento, di fare di questo stesso respingimento godimento ma un godimento nel senso lacaniano, quindi godimento di morte. Si scivola giù per antri bui, i personaggi si fanno essi stessi deriva, divengono essi stessi l’uno per l’altro il cibo-feci con cui accompagnare il movimento indigestivo di tensione all’inorganico. Bugatti che si fa fare delle scarpe speciali, come un guanto, con l’alluce indipendente –come racconta Marcello a Michel-, vuol dire stare in una grammatica pur non potendo scrivere, una grammatica che è il fasciame su misura, morbido, del corpo come origine e allo stesso tempo oggetto di pulsione, che si pone solo la necessità di scaricare freudianamente il plus di libido, di energia, per non sentire l’angoscia di doverla mettere continuamente in parole, di dargli un senso. L’angoscia è il corpo per i nostri quattro teneri amici, tanto che a nutrire il corpo si nutre inevitabilmente l’angoscia, quasi fosse un parassita. Ecco allora che la trasfigurazione in arte dell’angoscia di vivere (Bugatti si fa fare delle scarpe così originali perché è un artista, ma Marcello lo dice quasi si trattasse di una malattia) è un espediente che non funziona, produce auto meravigliose ma ‘cadaverizzate’, esse stesse cadaveri per cui è lecito chiedersi a che vale prodigarsi in cure meccaniche se il movimento stesso della vita è una curva discendente verso un garage-tomba che ingoia l’oggetto e la sua arte creata con lo scopo di sopravivergli. Marcello morirà dentro la Bugatti: cadavere dentro un cadavere. Anche Ugo come Bugatti è indubbiamente un artista, che riconosce vano il suo affannarsi a perpetuare la sua cucina proprio nel perseguirla nella dissipazione, nel vederla degradata al di fuori dei discorsi tipici dell’arte, composti da categorie estetiche di gusto qui assolutamente grottesche. Il suo cibo-arte si fa eccesso, un dar di fuori, un uscire fuori pista, a braccetto col sesso, l’onanismo, con questo accanirsi sul corpo come mostro delicato, alieno, a cui si ubbidisce per il moto pulsionale che impone, contro ogni illusione di nobiltà che l’uomo si concede nel fare di sé stesso qualcos’altro, nel trasformare la pulsione in opera. Lasciare che tutto si decomponga naturalmente con quanto di meglio si può godere; ecco il problema. Questo è l’incanto, li dove ogni desiderio è spento perché scoperto menzogna (Marcello si arrende all’idea che l’uomo non vola; costruisce macchine volanti, questo sì, e mangia avidamente gli animali a cui invidia questa conoscenza), impuro (Philippe, benchè aspiri più semplicemente di quanto attribuitogli ad applicare la legge piuttosto che far trionfare la giustizia), troppo a lungo e da troppo lontano inseguito (Ugo che dall’Italia finisce a Parigi armato del set di coltelli professionali di suo padre), troppo addosso a sé (Michel sembra voler tornare nell’utero di sua madre, la stessa che gli dava punizioni terribili quando scorreggiava da bambino). La sussurrata precisazione di Philippe di fronte alla virilizzante attribuzione di valore della maestra (“dev’essere eccitante far trionfare la legge”), è la costernata resa al fatto che dietro ogni valore araldico (la Legge) si cela la faticosa applicazione dell’umano alle cose per loro natura divine (appunto la legge), quindi sfuggenti nella loro inconoscibilità, tanto che Philippe non vuole più rappresentare la legge ma l’uomo che rinuncia ad essere messaggio per l’altro di un valore così astratto, tanto da degradarsi quasi ad infante nel concedersi alla soddisfazione materna di curarlo seppure con timida e quasi nobilmente ridicola dignità. La fellatio a cui si concede ogni volta è un atto regressivo, è un darsi come corpo infantile, è un indulgere all’equivoco di una cura materna che si vuole iconograficamente pura (la donna che si accosta ai suoi genitali non puo che essere madre o moglie), scevra di erotizzazione, è un comporsi come infante nato per soddisfare le angoscie dell’altro materno, per placarle. Le promesse simboliche della vita (essere giudice, ossia far trionfare la legge) non si mantengono, e la ferita che se ne cava –ove piuttosto le aspettative siano altre- dispone alla regressione più primitiva: tornare corpo ma privo di amore, ove il cibo non veicoli più amore ma all’opposto la degradazione ad oggetto di soddisfacimento, proprio nel venire nutrito, a propria volta soddisfatto, via sesso o via cibo. Ugo invece potrebbe cucinare per altri, diventare ricco, ma questo altro non saprà mai quello che perde, Ugo glielo nega, tanto da far rientrare dentro sé –come una madre che rimette dentro la pancia il figlio così bello da non potersene separare- il piatto prodotto dalle sue mani (il monumentale pasticcio), e poi concedere ai superstiti lo spettacolo della doppia masturbazione, esercitata da Philippe per il cavo orale (è lui che lo imbocca in un vortice di godimento), e da Andrea per la parte genitale, richiesta come favore ultimo. È il mistero dell’arte culinaria, in cui il prodotto è qualcosa che è piacere e nutrimento insieme, anche questa grammatica, ma una grammatica a rovescio, in quanto l’uomo che fa cose buone per gli altri ne è a sua volta privato, conosce cioè la solitudine di doversi nutrire, amare da sé stesso, in quanto non c’è l’altro disposto a riconoscere devozione alcuna al padre di quei cibi che figli non ha. Il corredo di coltelli di Ugo è l’arma con cui uccidere le sue pietanze (tagliate, ferite, mangiate), che è a dire i suoi sogni, l’idea che l’arte possa procrastinare la vita, cancellare la morte, e se così non avvenisse, tramite l’arte morire. Tutti vogliono regredire, scomparire, in questo emuli di De Sade e del suo desiderio di essere seppellito sulla nuda terra, senza lapide, spargendovi sopra semi che invitino le piante del bosco a riprodursi rendendo così anonimo il luogo sepolcrale. Michel muore quasi affogato nella sua merda, Marcello in un illusorio e fallito tripudio erettivo, Philippe da buon ultimo sprofonda prima in un dolce a forma di seni e poi –prima di esalare l’ultimo respiro- tra quelli di Andrea. La scena della morte di Ugo è un monumento attoriale –sono senza parole- di Tognazzi, che nell’agonia riesce a mettere oscenamente in scena il nascondino masturbatorio (orale e genitale) per sbeffeggiare, dribblare la morte quando questa si fa vicina sotto forma di godimento estremo, facendosi spettralmente largo tra i fegatini e il climax eiaculatorio. Solo Andrea giace, testimone e compagna di uomini alla deriva di loro stessi, muta, facendosi essa stessa cibo sessuale per chi non ne ha più desiderio, quest’ultimo ingoiato dall’unico desiderio indistruttibile dell’essere parlante, cioè la morte; disposta a coninuare a seguire il filo delle loro parole (ci sposeremo?) sapendo che si tratta di favole che servono solo ad accompagnare l’agonia.

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