E’ una riflessione sull’Arte, trasfigurata in un dramma psicologico, che sviluppa il rapporto servo-padrone hegeliano in un triplice amore saffico. L’arte non è qui impersonata dalla sola figura della protagonista, come accadrà con Maria Braun e Veronika Voss, ma è declinata nei ruoli che assume nella società e nei confronti del potere, attraverso tre diverse figure femminili. Marlene, la dipendente tuttofare, segretaria, disegnatrice di modelli, cameriera, è l’arte nella sua funzione storica di ancella del potere, che ambisce soltanto a compiacere, obbedendo servile ai capricci del mecenate-padrone. Petra, la modista di successo, raffinata, colta, razionale, è l’arte che impone al potere, che seduce e da cui è sedotta, un prezzo alto, che intrattiene relazioni ipocrite con il mondo che conta, codificate sinteticamente in uno squillante e falso ciao al telefono,ed ambisce al riconoscimento sociale. Karim è l’arte popolare, istintiva, vitale, volgare nella sua prorompente fisicità, che si concede, per opportunismo o per denaro, traendo profitto dal rapporto con l’arte raffinata, che abbandona dopo averla sfruttata, per mettere a frutto gli stilemi rubati in una nuova forma di meretricio. Karim, allegoria del cinema tedesco asservito ai modelli hollywoodiani, raggiunge, infatti, il marito, non a caso, americano, e sfilerà per importanti case di moda. Fassbinder non si identifica in nessuna delle tre, anche se la sua soggettività emerge a sprazzi nel personaggio di Petra, come quando, ubriaca ed al culmine di una crisi parossistica e dionisiaca, rifiuta, rinnegando sé stessa, tutti i ruoli, assunti fino a quel momento, di madre, di figlia, di amante, ed infine anche quello di imprenditrice dominatrice della serva masochista. La nudità dell’artista, privo di ogni ruolo nella società, è la frustrante inarrivabile aspirazione al sublime, che collima con la solitudine e preannuncia la morte. Nella scena finale, l’alcova si tramuta in un letto funebre. La trasposizione filmica della piece teatrale consente all’autore di proiettare lo spettatore sulla scena, rendendolo simile ai manichini, simbolo di un pubblico muto fruitore, la cui presenza passiva è imprescindibile per la realizzazione dell’opera d’arte. Il grande quadro di Poussin assorbe cromaticamente i personaggi tra le forme nude e le pose classiche di Bacco e di Mida, contrappasso mitico e metafora dell’arte nel mondo capitalistico, che, mutando tutto ciò che tocca in oro, anche la propria ispirazione, non avrà più niente di cui nutrirsi e morirà ricca e affamata. Il frastuono della vita, che si muove freneticamente tra Miami, Parigi, Milano, arriva come un’eco all’interno della grande stanza-utero-laboratorio-fucina artistica, dove, danzando al ritmo lento dei Platters, l’eroina, immaginando viaggi da intraprendere, si consuma nell’autoanalisi di un monologo interiore, interrogandosi sulla propria identità, mentre delega di fatto la creazione artistica all’ancella del Potere. Quando Petra incontra l’arte popolare e se ne innamora all’istante è una fascinazione reciproca che stravolge i canoni dell’arte borghese, e che, tuttavia, si muterà nel desiderio di possesso trasformando l’oggetto sconosciuto della propria passione nella bambola feticcio con le sembianze di Hanna Schygulla, estrema reificazione dell’arte mercificata. Marlene esce di scena portandosi via proprio quel feticcio, a significare che l’arte, quale serva fedele, è pronta ad assumere il nuovo ruolo impostole dalla società, ovvero di industria culturale per la produzione seriale destinata al consumo delle masse.
Film da vedere rigorosamente in lingua originale per non perdersi la recitazione, soprattutto di Margit Carstensen, e vuoi anche per il deludente doppiaggio in italiano, che, in questo caso, sarebbe stato necessario affidare ad attrici professioniste.
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