Il padrino

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Nessuno voleva davvero il capolavoro di Coppola

di Antonio Monda La Repubblica

Tra tutti i miti, gli aneddoti e i racconti apocrifi che circondano la realizzazione del Padrino ce n'è uno assolutamente vero: era un film che nessuno voleva realmente fare, a cominciare da Francis Ford Coppola, i produttori della Paramount e persino Mario Puzo. Non è l'unico paradosso che ha caratterizzato la lavorazione di uno dei più grandi successi di tutti i tempi: gli attori scelti da Coppola furono osteggiati dai produttori sino al momento dell'inizio delle riprese, e Coppola fu ripetutamente sul punto di essere licenziato, per l'iniziale delusione dei produttori di fronte al materiale girato, e persino per un complotto ordito dal montatore Aram Avakian il quale riferiva alla Paramount che il materiale girato era inutilizzabile, sperando di rimpiazzare il regista. Una nuova versione digitale e rimasterizzata di questo straordinario capolavoro, curata personalmente da Coppola, propone un documentario che racconta i retroscena più sorprendenti della lavorazione e della distribuzione, corredati da testimonianze di registi come Steven Spielberg, che dichiara di essere stato «polverizzato dalla storia raccontata e dall'effetto che ebbe su di me».
La Paramount acquistò i diritti del libro di Mario Puzo per farne una pellicola di genere. Nessuno riteneva che fosse necessario dedicarle un'attenzione superiore a quella di un film di serie B, e dal suo canto lo scrittore non aveva alcuna aspettativa: aveva scritto il libro per puri fini commerciali, scoraggiato dalla mediocrissima accoglienza della critica ai suoi primi lavori. Anche all'interno della Paramount c'erano molte resistenze, dopo lo scarso successo di Fratellanza, un film di ambientazione simile, diretto da Martin Ritt. Il genere gangster sembrava in pieno declino, e le storie di mafia e famiglia non apparivano attraenti per un pubblico in pieno rinnovamento generazionale dopo i fervori del Sessantotto.
In un primo momento vennero contattati Elia Kazan, Sergio Leone, Costa Gavras e Arthur Penn. Nessuno di loro sembrò interessato, e venne quindi convocato Sani Peckinpah, il quale lasciò sconcertati i suoi interlocutori spiegando che avrebbe girato Il Mucchio Selvaggio tra i mafiosi. Fu Robert Evans ad avere l'idea di scritturare allora un regista italo-americano, ma sul nome di Coppola si scatenò una netta ostilità: i suoi primi film avevano ottenuto incassi disastrosi, e quel regista barbuto che aveva fondato una propria casa di produzione e si ostinava a vivere a San Francisco aveva una fama terribile per Hollywood: pensava di testa propria. Tuttavia Coppola riuscì ad affascinare i produttori grazie ai racconti della sua famiglia italiana e al modo in cui spiegò che la saga dei Corleone era la storia di un re che aveva tre figli: «Il primo ha ereditato dal padre la dolcezza, il secondo la forza il terzo l'intelligenza». Ma dopo l'iniziale momento di seduzione iniziarono le battaglie: Coppola rifiutò di spostare la collocazione temporale del film all'epoca delle riprese e l'ambientazione a St Louis, molto più economica di New York. Per il ruolo di don Vito, la Paramount propose una lista lunga e inverosimile di nomi (tra i quali Laurence Oliviere persino Carlo Ponti) pur di non cedere all'idea di Marlon Brando, in piena crisi di successo al botteghino.
Coppola si sentì ripetere infinite volte «non farà questo film», e quando vinse la sua battaglia dopo che Brando aveva accettato di sottoporsi ad un provino con dei batuffoli di cotone all'interno delle guance, fece pronunciare la battuta al produttore che si rifiuta di scritturare Johnny Fontane/Frank Sinatra, e cede solo dopo che trova nel letto la testa del suo purosangue prediletto. Proprio Sinatra fece pressioni affinché il personaggio non potesse essere ricondotto a lui, e nel giro di poco tempo arrivò un altro tipo di pressione, ben più inquietante: un emissario della famiglia Colombo chiese ed ottenne che la parola mafia non fosse pronunciata nel film. La battaglia sul cast si spostò su altri fronti: Coppola era assolutamente convinto del talento del semisconosciuto Al Pacino, ma per il ruolo di Michael i produttori volevano Robert Redford o Ryan O' Neal.
Non diversa la lotta per i comprimari, e se Robert Evans racconta non troppo scherzosamente che pensava all'amico Henry Kissinger per il ruolo del Consigliori, Abe Vigoda (Tessio) racconta nel documentario di essere stato scelto, contro il parere dei dirigenti, perché era assolutamente sconosciuto. Coppola riuscì ad imporre come musicista Nino Rota, ma non fu facile convincere i finanziatori che il musicista di Fellini fosse giusto per un gangster movie.
Non meno ardua la battaglia per l'immagine del film: la grande idea di regia di offrire una suggestione etica sin dalla fotografia spaventò a morte la Paramount, ma entusiasmò Gordon Willis, che girò l'intero film in un chiaroscuro molto contrastato, e, negli interni, non illuminò gli occhi dei protagonisti. Ancora più ardua la battaglia sul montaggio: il ritmo epico immaginato da Coppola, con lunghe digressioni narrative alternate ad esplosioni di violenza, lasciò sconcertati i responsabili dello studio e offrirono l'occasione ad Avakian di proporre un montaggio alternativo, basato tutto sull'azione. Coppola si rese conto per miracolo di quanto stava avvenendo e, licenziato Avakian, riuscì a salvarsi dopo aver rimontato personalmente la sequenza dell'omicidio di Sollozzo.
L'ultimo fronte si aprì sul nepotismo: Coppola scritturò la sorella Talia nel ruolo di Costanza, il padre Carmine per dirigere le musiche di Rota e persino la figlia Sofia, appena nata: è lei ad essere battezzata nel finale del film. Non solo: affidò al pupillo George Lucas il montaggio della guerra di mafia. Anche quest'ultimo ricorda il clima di sfiducia e il tentativo costante di licenziare Coppola. Alla prima del film nessuno aveva grandi aspettative, ma Il Padrino divenne all'epoca il più grande successo di tutti i tempi, oltre che un fenomeno culturale tuttora imprescindibile. Se ne accorse per primo Henry Kissinger, allora segretario di Stato, che uscendo dalla prima dichiarò: «È un film che parla a tutti: non è molto diverso da quello che vedo ogni giorno a Washington».
Da La Repubblica, 28 settembre 2008

di Antonio Monda, 28 settembre 2008

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