Quattro mosche di velluto grigio

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Un film di Dario Argento. Con Mimsy Farmer, Michael Brandon, Aldo Bufi Landi, Jean-Pierre Marielle, Oreste Lionello.
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Giallo, durata 105 min. - Italia 1971. MYMONETRO Quattro mosche di velluto grigio * * * - - valutazione media: 3,20 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Il secondo grande film del Maestro Argento Valutazione 5 stelle su cinque

di MONFARDINI ILARIA


Feedback: 2203 | altri commenti e recensioni di MONFARDINI ILARIA
lunedì 20 maggio 2024

 Dario Argento esordisce nelle sale cinematografiche nel 1970 col giallo L’Uccello dalle Piume di Cristallo, che ha subito un grandissimo successo, così il regista, spinto dall’entusiasmo del pubblico, decide di proseguire su quel filone realizzando nell’anno successivo ben altri due film a cui decide di dare un titolo teriomorfo, Il Gatto a Nove Code e Quattro Mosche di Velluto Grigio, dando vita così alla cosiddetta Trilogia degli Animali. Oggi voglio parlarvi del terzo “capitolo” della trilogia, che è da sempre il mio preferito, anche per la varietà delle belle location tra Torino, Roma, Spoleto e Tivoli, e per la suadente colonna sonora di Ennio Morricone. Il film, classe 1971, nasce da un soggetto che Argento scrive insieme a Luigi Cozzi ed a Mario Foglietti, sceneggiatore anche dell’episodio La Bambola della Serie Tv La Porta sul Buio prodotta dallo stesso Dario. Come i due precedenti film, anche questo è prodotto dal padre di Dario e Claudio Argento, Salvatore. Roberto, batterista di una rock band, da alcuni giorni si accorge di essere insistentemente pedinato da un uomo con cappello, occhiali neri e baffi. Una sera decide di ribaltare la situazione e comincia ad inseguire lui stesso il suo inseguitore, fin dentro un vecchio teatro abbandonato. Durante una colluttazione l’uomo misterioso tira fuori un coltello e Roberto, nel disarmarlo, lo uccide accidentalmente e viene fotografato durante l’omicidio da uno strano tipo che indossa una maschera e che si trova in uno dei palchetti alti del teatro. Da qual momento Roberto, che vive in una bellissima casa con la moglie Nina, comincerà a ricevere dal personaggio misterioso dei biglietti in cui lo avvisa di sapere tutto, ma senza chiedergli soldi, tanto che il giovane non sa capire che cosa quest’uomo possa volere da lui. Chiede così aiuto a due persone molto diverse ma a loro modo entrambe efficaci: l’eccentrico Diomede, una specie di barbone che vive in una baracca in riva al fiume, e l’investigatore privato Gianni Arrosio. Avrà così inizio una spirale di delitti che si stringerà sempre di più intorno al povero Roberto, fino al finale che per lui non potrebbe essere più amaro e sorprendente. Dario Argento, a ragione denominato ormai da tempo il Maestro del Brivido, riesce a creare in questo suo terzo film una tensione quasi palpabile, rendendolo ancora oggi un esempio lampante di come un regista dovrebbe costruire un giallo. L’efferatezza di alcuni delitti e le spesso inattese mosse dell’assassino fanno sovente sussultare, e gli indizi disseminati un po’ ovunque possono aiutarci a costruire l’identikit finale dell’assassino. Non mancano i siparietti ironici tanto amati da Argento, e che renderà celebri in Profondo Rosso nelle gag che hanno spesso come protagonista Gianna Brezzi interpretata da Daria Nicolodi. Qui a sostenere il ruolo ironico del film troviamo il bravo attore francese Jean-Pierre Marielle, che dà vita ad un simpaticissimo investigatore privato omosessuale che ricorda l’antiquario de L’Uccello dalle Piume di Cristallo per i modi affettati e la leziosità dei movimenti. Oltre a lui, altro personaggio umoristico del film è quello di Diomede detto Dio, interpretato dal grande Carlo Pedersoli, in arte Bud Spencer, che si rivelerà essere uno dei personaggi chiave dell’intera vicenda, ed è peraltro ispirato a quello omonimo descritto da Fredric Brown nel suo romanzo La Statua che Urla, su cui Argento si basò per scrivere la sceneggiatura de L’Uccello dalle Piume di Cristallo. La pellicola è incorniciata dalle belle musiche di Ennio Morricone, che aveva già scritto le colonne sonore per gli altri due film della Trilogia, e che poi troveremo di nuovo al fianco di Argento ne La Sindrome di Stendhal del 1996. Come spesso è successo nei film di Argento, per il protagonista viene scelto un attore straniero, in questo caso il newyorkese Michael Brandon, alla sua prima interpretazione in Italia. Appena ventiseienne, l’attore non mi ha mai completamente convinto, sebbene Argento abbia più volte affermato che il suo ruolo in Quattro Mosche è un po’ quello di un suo alter ego, ed il personaggio di un suo film che maggiormente lo rappresenta. L’espressione imbambolata ed avulsa da tutto e da tutti che spesso lo caratterizza, nonostante probabilmente gli sia stata richiesta, non riesce a coinvolgermi, ma anzi, in più di un’occasione trovo abbassi notevolmente il pathos e la tensione della narrazione. Fortunatamente al suo fianco Argento gli pone come moglie la splendida attrice americana Mimsy Farmer, che dopo la partecipazione a questo film diverrà una delle icone del giallo/thriller anni Settanta Made in Italy, raggiungendo massima fama come protagonista dell’onirico e innovativo Il Profumo della Signora in Nero di Francesco Barilli del 1974 e successivamente di Macchie Solari di Armando Crispino del 1975, di Black Cat di Lucio Fulci del 1981 e di Camping del Terrore di Ruggero Deodato del 1986. Nei panni di una donna apparentemente fragile e sperduta, la Farmer ci regalerà delle belle sorprese, e sul finale darà ampio sfogo alle sue doti drammatico - recitative ed alla sua grinta. Tra i nomi noti del film dobbiamo ricordare la grande attrice teatrale Marisa Fabbri nei panni dell’impicciona domestica Amelia, la cui scena nel parco di Villa d’Este a Tivoli rimane una delle più memorabili e ricche di pathos dell’intera pellicola, e Oreste Lionello, in quelli di un professore. 4 Mosche di Velluto Grigio è il secondo film girato da Argento in buona parte a Torino, dopo Il Gatto a Nove Code. E’ risaputo quanto il Maestro romano sia legato alla città della Mole, tanto da averla usata come set per ben sette dei suoi film, sottolineandone spesso l’aspetto oscuro ed esoterico. Qui, nello specifico, vengono utilizzati l’elegante Galleria Subalpina, sede di antiquari e librerie di prestigio, per situarvi l’ufficio dell’investigatore Arrosio; la facciata del conservatorio Giuseppe Verdi per simulare l’esterno del teatro in cui avviene il primo omicidio (l’interno è invece quello del Teatro Nuovo di Spoleto); il giardinetto pubblico Lamarmora in via Cernaia; l’auditorium RAI, con la celebre inquadratura della sigaretta per terra, in cui vengono collocati gli studi di registrazione della band di Brandon; il bellissimo Caffè liberty Mulassano, in Piazza Castello, dove Arrosio e Roberto pranzano prima che l’investigatore accetti l’incarico. Le altre location sono collocate per la maggior parte a Roma, ed a Milano è stata girata invece la scena in metropolitana. Questo è peraltro l’unico film di Argento che ha anche una scena girata in Africa: tutte le sequenze del sogno ricorrente di Roberto, in cui un uomo viene decapitato con una scimitarra, sono state realizzate presso il cortile esterno della Grande Moschea di Qayrawan in Tunisia, non molto distante dal golfo di Hammamet. Il motivo per cui questo adrenalinico e tesissimo giallo argentiano è ancora oggi il capitolo meno conosciuto e probabilmente più sottovalutato della Trilogia degli Animali è da ricercare nella sua sfortunata storia distributiva. Dal 1992 al 2008 non viene mai trasmesso dalle emittenti televisive italiane, relegandolo in una sorta di oblio, tanto più che anche la prima edizione home video non vede la luce prima del 2009, a causa di problematiche legate ai diritti d’autore. Eppure questo film è giustamente ritenuto dagli estimatori di Argento l’anello che unisce la prima produzione gialla del regista ai successivi thriller come Profondo Rosso e Tenebre, potendo vantare una suspense non comune ed alcune scene altamente disturbanti, capaci di far sussultare ancora dopo oltre cinquant’anni!! Il finale è leggendario, lo stratagemma col quale viene individuato l’assassino assolutamente fantasioso e strepitoso, e verrà omaggiato nel 2008 dal giovane regista romano Stefano Bessoni col suo bellissimo e molto gotico Imago Mortis: sarà vero che le retine dell’occhio di un morto possono restituirci le ultime immagini che lui ha visto prima di spirare? E che cosa avrà visto, qui, l’ultima vittima del feroce assassino? Il suo volto? O forse un qualche dettaglio che potrà incastrarlo? Come si incastonano nel film le mosche del titolo? Hanno un senso concreto o sono solo una metafora? A queste domande Argento risponderà con eleganza e dovizia di particolari, disorientando più volte lo spettatore, ma facendo quadrare perfettamente il cerchio sul finale, il cui ultimo frame, per altro, avrà come protagonista un ignaro camion, come poi avverrà anche verso il finale di Profondo Rosso. Nemo Propheta in Patria, ahimè. Infatti Argento ad oggi viene ancora indicato da tanti italiani come un regista sopravvalutato, mentre viene studiato ovunque all’estero a causa della sua regia ispirata ed originale, tecnicamente all’avanguardia, e 4 Mosche di Velluto Grigio rientra certamente nel novero dei film del Maestro che gli hanno valso la palma di Re del Brivido, grazie alle sue doti che lo hanno saputo trasformare in un’esperienza visiva sublime, sopraffina, ed alla sua regia encomiabile e ottima sotto tutti i punti di vista, fregandosene, come del resto sempre fa, della logica e della verosimiglianza narrativa, perché i suoi film vanno vissuti, non analizzati o sezionati, bisogna lasciarsi andare e farsi trasportare, solo così si potrà apprezzare appieno l’opera di uno dei maestri indiscussi del thrilling italiano. Dario ci inganna, ci illude, ci fa vedere l’assassino dalle prime scene, ci dà gli indizi giusti e poi quelli sbagliati, ci tiene prigionieri, lascia la corda e poi la ritira, ci fa pensare di aver capito tutto per poi farci cambiare nuovamente opinione: questo è il suo cinema, queste le sue peculiarità, e ritenerlo “sopravvalutato” è segno di scarsa cultura cinematografica, o forse, soltanto, di una boriosa vanagloria. 

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