Per grazia ricevuta

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Un film di Nino Manfredi. Con Nino Manfredi, Mario Scaccia, Lionel Stander, Mariangela Melato.
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Commedia, durata 122 min. - Italia 1971. MYMONETRO Per grazia ricevuta * * * 1/2 - valutazione media: 3,71 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Colori, suoni e sensazioni da non dimenticare Valutazione 5 stelle su cinque

di Cryptex


Feedback: 3
lunedì 20 giugno 2011

 

I Pink Floyd, che non abbisognano di presentazione, definirono il loro “The wall” a ragione, un'opera rock. Di pari entità e valore in tal senso, può definirsi “Per grazia ricevuta” che nel 1971 per la regia di Nino Manfredi ha ricevuto, con meritato orgoglio, il premio “Opera prima” a Cannes.

Laddove Manfredi ha potuto esprimere in prima persona la sua garbata grandezza, ha regalato al suo pubblico, perle di rara profondità, sempre mascherate da malinconica ironia. Dopo le esperienze forse un po' troppo commerciali degli anno '60, la vita artistica di questo grande attore e regista si evolve verso interpretazioni mature, ricche di puntuale acutezza nella scelta dei dialoghi apparentemente semplici, poiché specchio della narrazione, ma mai casuali. Eppure capolavori come “Pane e cioccolata” per la regia di Franco Brusati non risultano editi in DVD, dimenticati: persi per sempre. Al di la di qualche sentimentalismo forse troppo carico di nostalgia e ricordi di chi scrive, assaporare, attraverso quei momenti di storia vissuta, il passato recente, nascosto troppo frettolosamente sotto al tappeto buono dei salotti odierni piccolo borghesi, porterebbe a non offuscare le origini, i disagi, e le sofferenze passate dagli operai italiani di una quarantina di anni fa che tanto somigliano a quelle dei tanti “gemelli” romeni che disturbano i sonni di molti.

“Per grazia ricevuta”, in prima e superficiale visione, è un film allegro, carico di evocazione di spensierate vite di bambini all'aperto, figli di una cultura pseudo religiosa che ha saputo trasformarsi cambiando pelle ma non sostanza. Il filo narrativo descrive la religiosità cristiana nel suo aspetto peggiore, non già nel valore spirituale e di pensiero, ma come espressione pagana di adulazione dei santi nelle loro figure fisiche, quelle presenti, reali dei santini e delle statue di cartapesta. Benedetto, il protagonista, vive tutti i dogmi di quel credo cristiano che ben si riassumono in un' espressione del parroco che insegna ai bambini la dottrina e alla richiesta di uno di questi risponde: “è così, zitto e seduto”. Il piccolo antieroe della storia, diviene santo miracolato, per un bisogno assoluto della ristretta comunità paesana. Chiude la sua esistenza in un convento dove non sa e non vuole decidere della sua vita futura, nonostante sia vivo in lui un barlume di percezione di una possibile esposizione al mondo, che volutamente ha allontanato da se. Tuttavia il sottile diaframma si frantuma e Benedetto cade nel quotidiano cercando di recitare a se stesso un ruolo di scaltrezza che non sembra appartenergli. Lungo la breve parentesi di “road life” attraverso la piccola provincia come venditore itinerante, incontrerà ancora lo spettro dei così detti valori cristiani. Piace osservare il pacchiano allestimento del suo furgone: rosso, con specchi e luci quasi a rigettare la vita austera condotta in monastero. Poi, fragoroso e dirompente, l'incontro con quello che riterrà suo padre putativo: un farmacista notturno che finalmente psicanalizza Benedetto, palesando, attraverso l'ateismo, la necessità e l'esistenza di una possibile interpretazione diversa della vita. Gli viene detto: ”immagina solo per un momento che Dio non esista, anche i mali che sopraggiungeranno ti sembreranno più umani se non ti arrivano dall'alto”. Questa frase, nonostante un sonnifero preso per un riposo forzoso, risveglia nel protagonista l'interesse assoluto in un'alternativa finalmente possibile. Benedetto vive la sua nuova libertà, sfiorando un matrimonio che evita in extremis, e che, probabilmente, lo avrebbe fatto ricadere nel labirinto dei suoi spettri. La svolta drammatica tuttavia sfalderà per sempre il castello di carta nato sull'instabile sabbia delle sue flebili certezze.

E' bella la visione dei caldi colori del Tecnicolor che fanno sembrare sempre il girato come un quadro dai colori ad olio. La mancanza di profondità di campo, quasi non si avverte poiché il risultato porta a sognare un po' e quindi stimola la mente dello spettatore a “completare” l'immagine con le proprie sensazioni. I quarant'anni del film pesano poco, se non in piccoli particolari, anche perché, come consueto, i tagli avevano una connotazione di più umana attesa, quasi nella consapevolezza che le attese non sono mai sprecate. In tal senso, molte pellicole europee di quell'epoca, sono ormai pezzi unici, diff icilmente assoggettabili all'odierna logica dei must produttivi. Un film insomma da vedere, ma soprattutto da far vedere, scoprendo che l'ironia nasconde spesso il vero dramma ed assaporando l'intercedere misurato dei tempi di regia e la poesia di certi dialoghi.

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