A lungo erroneamente considerato un Leone minore, questo film non ha invece nulla da invidiare ai grandi capolavori del regista nostrano.
Un’opera monumentale, ma soprattutto un film fortemente politico (come dimostra fin da subito la citazione di Mao Tse-tung all’inizio), che in questo si differenzia in parte dai precedenti western di Leone.
Già nei primi 15/20 minuti assistiamo a una sequenza geniale, che mostra attraverso primissimi piani di bocche e occhi le differenze sociali e culturali tra i peones rivoluzionari e i ricchi.
Nell’assenza di tempi morti o di una qualsiasi caduta di ritmo, e grazie invece alla presenza di più di un tocco di ironia, trascorrono due ore e mezza dove il regista sviluppa in maniera magistrale svariati temi importanti quali l’amicizia, nonché l’oppressione di un popolo afflitto e dilaniato da una situazione politica fatta di inganni (le false promesse del governatore Jaime “mostrate” attraverso i manifesti affissi sulle mura delle piazze) e crudeltà.
Il film è superlativo soprattutto nel modo in cui ci mostra come le guerre e le varie tensioni politiche possano portare le persone (gli amici) a tradirsi.
Questo mutamento della coscienza è un processo che “appartiene” (sembra dirci Leone) a tutte le guerre, poiché infatti nel film si ripete col passare del tempo. Ciò si rispecchia nei flashback che ci mostrano il passato di James Coburn (che viene tradito dall’amico torturato) che si ripete nel presente (rivoluzione messicana dei primi del ‘900), quando Romolo Valli (sempre dopo essere stato torturato) è “costretto” a tradire i suoi compagni facendoli in questo modo fucilare. Durante la scena che mostra questa fucilazione, il regista compie una sorta di (chiamiamolo così) miracolo di montaggio, poiché associa frammenti del flashback di Mallory (in particolare la scena in cui si gira e spara all’amico nel bar) con la fucilazione in atto, elevando così la reiterazione degli eventi ad uno stato elegiaco.
Le scelte (e gli errori) del passato si ripeteranno nel presente. I giorni felici sono ormai andati (questo ce lo comunica, non senza un tocco di forzata commozione, la scena finale dell’ultimo flashback di Coburn prima di morire).
Il fatto poi che Rod Steiger diventi il leader della rivoluzione a causa di un comico equivoco, ci mostra come in un periodo bellico-rivoluzionario siano così fragili i confini tra chi detiene l’autorità di decidere e cambiare il corso degli eventi e chi no.
Questi bruschi cambiamenti causati dalla/e situazione/i politica/che si rispecchiano anche nel’idea della banca Mesa Verde, prima piena d’oro e poi durante la guerra civile diventata una prigione politica.
Il finale, triste e amaro come di rado si è capitato di vedere, getta infine uno sguardo angosciante e incerto sul futuro.
Questa emozionante e trascinante epopea è accompagnata da una delle migliori tracce di Ennio Morricone. Il tema portante del film composto dal maestro accompagna i flashback (e non solo) del (co)protagonista, elevandoli ad uno stato quasi onirico e conferendovi un carattere nostalgico che tocca cuore e spirito.
In definitiva, un film immancabile, ultimo atto di un regista che, dopo John Ford, ha dato al genere western il più grande contributo di tutti i tempi e che di lì a qualche anno si sarebbe spostato su tutt’altro piano (“C’era una volta in America”, 1984).
Un opera memore dei tempi d’oro di un cinema che ora non c’è più.
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