Questo film, insieme a "Salò", è il più attuale di Pasolini. Quello che racconta è infatti niente più che uno scontro generazionale: quello tra padri e figli.
Uno scontro però riluttante come l'indifferenza di Julian nell'episodio "borghese", segnato già in partenza da una sconfitta inevitabile (scritte su lapidi che sembrano millenarie).
Come non vedere in questo film i tristi rimandi all'attualità, con le trame dei padri e dei capitalisti (Klotz ed Herditzke) che nel perseguire cieco dei loro interessi non lasciano alcuna speranza, alcun futuro ai propri figli? Nemmeno la ribellione, come nell'emblematico episodio di Julian, al limite solamente ribrezzo, pietà e condanna (come ignorare i discorsi superficiali di chi oggi indossa ai giovani la "colpa" della loro nullafacenza?).
Uno scontro generazionale che non si fa con parole, con confronti (mai Julian e suo padre vengono veramente in contatto), proprio perché la generazione dei figli ha già perso in partenza, è già inevitabilmente vinta dal mondo capitalista in cui sono costretti a soccombere nell'indolenza e nell'indifferenza: e questa è la nuova subdola violenza del "Potere" secondo Pasolini.
Ma c'è da segnalare come, al contrario di altri film, qua lo sguardo del regista nei confronti delle giovani vittime, dei "vinti", non ha alcuna pietà: tutto l'episodio di Julian è un'indolente e malinconica elegia, raccontato con grande raffinatezza e sensibilità, senza mai cadere nell'enfasi nei confronti dei "vinti" che spesso ha caratterizzato lo sguardo passionale di Pasolini.
Uno scontro silenzioso, come nell'episodio del cannibale; da notare che le uniche parole di quest'episodio sono quelle che dichiarano per l'appunto il parricidio.
Ed il messaggio dell'episodio rimanda anche a "Salò": l'inizio ci presenta infatti questo ragazzo affamato, ridotto a mangiare insetti e foglie. Ma se in "Salò" la società affama gli uomini per costringerli poi a mangiare i propri escrementi, qui negl gesto più ignobile del cannibalismo si cela il gesto più puro della ribellione.
Quest'episodio mostra dunque come l'unica via di fuga lasciata alle nuove generazioni sia quella della violenza, una violenza primitiva e selvaggia che verrà condannata dalla società, ma che non viene qui condannata dal regista, perché essa rappresenta le forme più autentiche della vita; non a caso al cannibale se ne uniranno altri, formando un vero e proprio nucleo sociale (come a dire che di violenza e di comunità è fatta la vera storia).
Ma anche qua, tra le pendici desolate e incenerite dell'Etna, la sconfitta è già segnata in partenza, nello sguardo dignitoso e sofferente di PIerre Clementi (il cannibale) si intravede già il destino, il fato che inevitabilmente pende sopra i gesti più naturali, selvaggi e violenti (come in "Medea").
Insomma, "Porcile" è un mini capolavoro, anche dal punto di vista tecnico.
In questo film strutturato come un "doppio" si incrociano alla perfezione le due anime del Pasolini regista:
nell'episodio del cannibale la bellezza selvaggia dei paesaggi, le inquadrature che tagliano dall'alto, i riflessi del sole, i corpi nudi;
in quello di Julian le nude geometrie degli interni, i primi piani, le inquadrature laterali, gli splendidi dialoghi di infinata poesia (mai una parola che non sia profonda).
Se infine si pensa che questo film è orfano di Ferretti e Morricone, maestri della scenografia e della colonna sonora nei successivi capolavori pasoliniani, ci si rende conto ancora di più di quanto sia qualitativamente.
Tra l'altro è questo èl'unico film in cui Pasolini non utilizza attori di strada, ma lascia spazio a veri e propri professionisti francesi e italiani (più i pupilli Davoli e Citti, che però non erano più sconosciuti allora), e che offrono una prova encomiabile, priva di quel protagonismo che a mio parere ha rovinato film come "Mamma Roma" e "Uccellacci e uccellini " con la Magnani e Totò.
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