Persona

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Un film di Ingmar Bergman. Con Bibi Andersson, Liv Ullmann, Gunnar Björnstrand, Margaretha Krook.
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Drammatico, b/n durata 85 min. - Svezia 1966. MYMONETRO Persona * * * * - valutazione media: 4,08 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

5 personaggi, dialoghi rarefatti e molta intensità Valutazione 4 stelle su cinque

di Great Steven


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sabato 5 marzo 2016

PERSONA (SVEZIA, 1966) diretto da INGMAR BERGMAN. Interpretato da BIBI ANDERSSON, LIV ULLMAN, MARGARETHA KROOK, GUNNAR BJORNSTRAND, JORGEN LINDSTROM
Alla giovane infermiera Alma viene affidata la cura dell’attrice Elisabeth Vögler, rinchiusasi in un mutismo persistente dopo un evento traumatico accadutole su un palcoscenico teatrale. L’incarico le viene dato dalla dottoressa che le funge da datrice di lavoro, che fin da subito si mostra fiduciosa nelle capacità della ragazza. Alma effettua la terapia su Elisabeth inizialmente all’interno della clinica dove esercita il suo capo, la dottoressa summenzionata, dopodiché, quando quest’ultima le mette a disposizione la sua ampia e sfarzosa villa sul mare, le due donne si trasferiscono là. Ma il loro rapporto, dapprincipio di reciproca intesa e poggiato su basi solidamente tranquille, ben presto comincia ad incrinarsi, e la sua degenerazione sfocerà in un bisogno inderogabile e irresistibile che l’una avrà dell’altra, dal momento che anche la stessa Alma, come già successo alla sua paziente, avrà allucinazioni punitive e flashback rivelanti sul suo passato e sul suo futuro. Non è un film facile da recensire, e meno ancora da comprendere. La chiave di lettura più facile dalla quale si può giudicarlo è naturalmente l’interpretazione psicologica, ma da un punto di vista narrativo questo film, a torto considerato come un’opera minore del maestro I. Bergman (1918-2007), ha molto da comunicare soprattutto ad uno spettatore attento e avido di significati fondamentali da cogliere. Nella fattispecie, Persona scava con voracità nel profondo della mente femminile, mettendo a nudo le insicurezze, i timori, le debolezze e le paure che una relazione amichevole, ma comunque tribolata, fra due donne, accentua col passare del tempo, portando entrambe a scoprire letteralmente le carte e a giocarsi il tutto per tutto pur di sopravvivere. E solo individualmente, perché i sentimenti positivi che sussistono quando la relazione comincia, in seguito si perdono nel vortice delle visioni, delle ossessioni e dei tormenti che queste due vittime – perché in fondo di questo si tratta, non certo di eroine né tantomeno di inette – sperimentano nei propri vissuti e sulla propria pelle, senza poter contare sul sostegno dell’interlocutrice, per quanto un principio di affetto e, chissà, forse pure di amore, faccia la sua comparsa in un esordio che, almeno ad un osservatore distratto, fa ben sperare. Il film assume dunque una prospettiva del tutto pessimistica non tanto per quel che concerne la cura delle malattie mentali, quanto piuttosto per la vittoria spiazzante e devastante dell’egoismo sull’altruismo, vittoria alimentata paradossalmente da tutte le piccole sconfitte personali (amorose e cameratesche, specialmente) che decretano, nell’esistenza delle due donne, l’insorgere di smaniosi desideri illusori, i quali le conducono a credere che tutto potrà andar meglio. Ma, ribadisco, è soltanto illusione. O anche proiezione, giacché l’opera è introdotta da frammenti di pensieri sconnessi e con questi ultimi si conclude anche. Inutile stare a snocciolare frasi prese a prestito da psichiatri famosi o anche ricercare, nella sinossi della pellicola, qualche aggancio con gli studi eseguiti su tale disciplina da un esperto in materia: Bergman ha il grandissimo pregio, in questo frangente, di schermirsi dai rigidi dettami della scienza, e degli uomini che per essa lavorano, perseguendo un percorso autorale di tutto rispetto che trova la sua forza espressiva nel dialogo e, parimenti, nella mancanza dello stesso, visto che una delle due protagoniste si limita a ridere e mugugnare. Incredibili le due interpretazioni principali, giocate ambedue sul filo del rasoio e condotte con una perizia recitativa da far venire i brividi: B. Andersson, già pupilla affermata e attrice prediletta dal regista, incarna l’infermiera sentimentalmente in burrasca con un piglio magnifico e una misurata, ma pur sempre efficace, angoscia esistenziale; al suo fianco, L. Ullmann (svantaggiata drasticamente rispetto alla collega per via della recitazione muta) sopperisce all’assenza dell’eloquio con espressioni fortemente indicative e una mimica gestuale che l’avrebbe resa ideale ed adattissima ai tempi del muto. Bergman ci mette la farina del suo sacco nella gestione sapiente e attenta dei contributi tecnici, facendo leva su una meravigliosa fotografia in bianco e nero e supervisionando una sceneggiatura laconica che punta in modo notevole sulla carenza di parole per rivolgere l’attenzione del pubblico sulle immagini, le quali, in confronto alla favella intesa proprio in senso lato e relativamente al film, affermano con preponderanza la loro superiorità. Bravissimo anche G. Björnstrand, l’attore che nove anni prima aveva brillato nel ruolo del figlio di Isak Borg nell’insuperabile Il posto delle fragole, sempre diretto da Bergman. Anche lui, come la Andersson, godeva grandemente delle simpatie personali di un cineasta che sicuramente, a livello nazionale (svedese), fu il maggiore della sua epoca, lungamente insuperato e di professionalità indiscutibile; e, a livello internazionale, capace di lasciare un patrimonio cinematografico da apprezzare per aver snocciolato in tutte le salse le torture, i tradimenti, le occasioni perdute, le sofferenze e i travagli a cui il cervello umano va incontro nelle vite più combattute e, per questo motivo, più interessanti.

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