L'uomo del banco dei pegni

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Sol Nazerman, condannato a ricordare Valutazione 4 stelle su cinque

di Paola Di Giuseppe


Feedback: 25409 | altri commenti e recensioni di Paola Di Giuseppe
giovedì 24 giugno 2010

Sol Nazerman,uomo di mezza età sopravvissuto ad Auschwitz dove ha perso tutta la famiglia,gestisce un banco dei pegni ad Harlem per conto di uno sfruttatore di prostitute che ricicla il denaro sporco attraverso il suo negozio. Ha un commesso,Jesus,furfantello portoricano sulla via della redenzione,che ha promesso alla vecchia madre di cambiar vita e di puntare in alto. Jesus vede in Sol il suo maestro e porta nel negozio note di allegria che stridono nell’impatto con la maschera chiusa dell’ebreo,laconico,impermeabile ad ogni tentativo di contatto umano. Come lui,così i disperati che appoggiano sul banco i poveri oggetti da impegnare,si scontrano con la gelida indifferenza e i pochi dollari offerti in cambio della merce,e il loro sorriso triste si spegne mentre accettano quella miseria. La relazione con Tessie,moglie di un compagno di prigionia morto nel campo,si trascina stanca,mentre il vecchio padre di lei,malato,lancia dal letto dietro la tenda orribili anatemi contro i due,colpevoli di non esser morti anche loro. Nello spazio cupo del banco dei pegni,che Boris Kaufman fotografa in un bianco e nero denso di ombre pesanti,entrano ed escono personaggi di un dramma senza sfondo,reperti di un’umanità annichilita in una condizione di solitudine incomunicabile,in cui Sol sembra l’unico capace di vivere impassibile. Il denaro è l’unica cosa in cui crede,e di questa filosofia fornisce lezioni allo sprovveduto Jesus. Questo fino all’apparire delle prime crepe,quando rapidissimi flash back del passato cominciano ad affollarsi e allora si sgretola quella che era solo la muta difesa disperata di chi ha visto troppo. Aggrapparsi ad una rabbiosa definizione della propria storia di appartenenza non serve,Sol Nazerman ha incarnato in sé il destino del suo popolo,quella leggenda nera che ha portato nei lager la famigliola felice della sequenza iniziale sul fiume,fra erbe alte e corse felici di bambini,incipit straniante prima dei titoli di testa che scorrono sullo sky line di quartieri metropolitani newyorkesi alla Edward Hopper,il mondo nuovo dove la vecchia Europa è andata spesso a curarsi piaghe insanabili. Sol ha lasciato dietro di sé l’orrore,ha creduto così di esorcizzare il passato,ma lampi implacabili attraversano la sua memoria,spesso in rapidissima sovrapposizione sulla realtà. Lumet alza la tensione con progressione crescente,lascia ai suoi attori tempo e spazio per sviluppare il loro personaggio in un territorio desolatamente vuoto,alterna quadri intensi di cinema/verità(le strade di New York, gli interni di locali di malaffare)a suggestioni oniriche,quasi alterazioni di stati di coscienza del protagonista,ormai incapace di porre un freno al dilagare della memoria. Sol non può andare avanti con la vita che conduce,ma neppure trovare via d'uscita. Il suo aspetto fisico registra con freddezza impietosa la caduta finale di quest’uomo che per sopravvivere ha dovuto negare la vita, la maschera si scompone in frammenti,il finale si carica di pathos nella morte di Jesus ma non apre prospettive. La musica di Quincy Jones segue la storia con progressioni armoniche poliritmiche,sospensioni melodiche seguite da accelerazioni convulsive, stridenti,dà complemento sonoro ad una storia di uomini chiusi nel silenzio di una solitudine inespiabile,vite senza colore,dissanguate dalla storia. Rod Steiger dà una prova ineguagliabile nella capacità di esprimere per sottrazione, il premio come miglior attore a Berlino ne riconobbe la grandezza.

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