Il deserto rosso

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Donna che non trova rimedio alla sua depressione. Valutazione 4 stelle su cinque

di GreatSteven


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giovedì 23 marzo 2017

 

IL DESERTO ROSSO (IT/FR, 1964) diretto da MICHELANGELO ANTONIONI. Interpretato da MONICA VITTI, RICHARD HARRIS, CARLO CHIONETTI, XENIA VALDERI, RITA RENOIR, LILI RHEIMS, VALERIO BARTOLESCHI

Protagonista è Giuliana, una donna di circa trent’anni, sposata e madre di un bambino, preda della depressione. Insoddisfatta della sua vita coniugale (il marito, romagnolo, è progettista di navi), si estranea sempre più dal mondo che la circonda, perde contatto con la realtà e non riesce a trovare un sollievo dai suoi frequenti e intensi attacchi d’ira improvvisa, dalle pericolose scivolate nell’apatia e dal suo egocentrismo autodistruttivo. Allevando il figlio senza passione e rivelandosi una genitrice iperprotettiva e coltivando un rapporto col coniuge privo di autentico affetto, Giuliana desidererebbe stringere rapporti sociali importanti, ma è sempre frenata dal suo bisogno patologico degli altri, che le fornisce inettitudine e le nega una piena serenità interiore. L’incontro con Corrado Zeller, ingegnere minerario che commercia con l’Argentina e amico del marito Ugo, sembra caricarla di un’energia mai provata prima, energia che le dà una temporanea riabilitazione prima con un pomeriggio trascorso con donne e uomini beceri e gaudenti, poi con numerose passeggiate per la riviera romagnola, invasa dalle navi che attraccano e popolata di impianti industriali che sputano fumo e fuoco. Ma nemmeno Corrado, consapevole del dolore che la donna si porta appresso, è utile per far uscire Giuliana dal suo permanente stato depressivo, malgrado l’avventura amorosa che i due vivono. Terminata la trilogia dell’incomunicabilità (iniziata nel 1960 con L’avventura, proseguita con La notte e conclusasi con L’eclisse), Antonioni aggiunge un quarto capitolo che funge da spin-off, come si direbbe oggi, o meglio è un’istruttiva postilla di enorme pregio artistico che riprende il tema dell’individuo umano solo e strapieno di paure, al quale l’universo circostante non dà occasioni di esternare i suoi talenti, né di prender parte alla sua costruzione con una partecipazione attiva e soddisfacente. Leitmotiv della pellicola – un dramma introspettivo eccellente e con un’ottima tensione drammatica – sono le arrabbiature nevrotiche di M. Vitti (alla sua 4° collaborazione con Antonioni, e ormai consacrata come attrice di spicco del cinema italiano anni ’60), la sua ricerca di un senso nelle cose, la sua costante ipocondria e la sua incapacità di acquisire un’indipendenza dagli altri, perché con loro non sta bene, ma riconosce lei stessa di averne un bisogno decisamente morboso. Il titolo, inerente anche al meraviglioso colore dei capelli della protagonista, fa riferimento anche alle assi di legno della malandata casetta sull’acqua da cui il gruppetto festante, insensibile ai problemi di Giuliana e divoratore esclusivo di ciarlatanerie, osserva il passaggio delle navi da carico. Ulteriore punto di forza della pellicola è la scenografia, che raffigura una Ravenna nebbiosa, popolata di ciminiere e tralicci elettrici, erogante fumi dai colori forti, una città balneare triste, ferma (nonostante il continuo lavorio industriale), bigia e che sa rispecchiare la vacuità d’animo della protagonista, che passeggia per mano con suo figlio come se il luogo in cui cammina non le appartenesse, come se fosse un contenitore che la spinge ad alienarsi ancora di più. La fotografia di Carlo Di Palma (che collaborò anche al restauro del film) bacia i paesaggi della costa ravennate, raffigurandone con verosimiglianza il grigiore estetico e la tenebrosa incombenza che riescono a comunicare allo spettatore, rendendo questo contributo tecnico una pietra miliare su cui fare affidamento per un direttore della fotografia alle prime armi. Unica incursione nella bellezza della natura è il racconto favolistico che Giuliana fa al figlio, quando questi, probabilmente ispirato dalla madre, si finge ammalato: la spiaggia rosa, attorniata da una natura rigogliosa e lambita da un’acqua trasparente, è una magnifica oasi di pace che la stessa Giuliana sogna di poter un giorno raggiungere, ma le sue speranze vengono troncate da subito dal suo autolesionismo. E poi il romagnolo parlato dai personaggi è un dialetto rattristante, privo di quella vivacità che gli idiomi locali italiani da sempre hanno, perché, grazie ad una sceneggiatura attenta e coerente, le loro parole vengono epurate dell’ottimismo e precipitano chi le pronuncia in un abisso inquietante di vuotezza. R. Harris in uno dei suoi primi ruoli importanti, si distingue per un’eleganza e un delicato carisma che conferiscono al suo carattere un’aura signorile, da signore della recitazione, il che avvantaggia la sua pacata ed efficiente interpretazione. Leone d’oro alla XXV Mostra del Cinema di Venezia.

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