Un re a New York

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Un film di Charles Chaplin. Con Charles Chaplin, Dawn Addams, Phil Brown, Michael Chaplin, Oliver Johnston.
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Titolo originale A King in New York. Commedia, Ratings: Kids+13, b/n durata 105 min. - Gran Bretagna 1957. MYMONETRO Un re a New York * * * 1/2 - valutazione media: 3,75 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Per l'ultima volta... chapeau all'ormai ex Charlot Valutazione 3 stelle su cinque

di GreatSteven


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lunedì 2 ottobre 2017

 

UN RE A NEW YORK (UK, 1957) diretto da CHARLES S. CHAPLIN. Interpretato da CHARLES S. CHAPLIN, DAWN ADDAMS, OLIVER JOHNSTON, MICHAEL CHAPLIN

Il monarca europeo Shedov, sovrano del (fantomatico) stato di Estrovia, in seguito ad un moto insurrezionale popolare dovuto a certi suoi piani atomici, è costretto a riparare a New York insieme al fedele primo ministro Gémier. Scopre, appena ricevuti i fotografi, i giornalisti e le accoglienze di rito, che la stragrande maggioranza delle sue ricchezze son finite nelle mani dei suoi ex collaboratori che l’hanno tradito, appoggiando il popolo rivoluzionario. Shedov s’aspetta di ricevere in quella che considera la sua nuova patria un benvenuto caloroso e una permanenza tranquilla, ma passa poco tempo e le sue giornate vengono complicate da quattro persone che non si aspettava di incontrare: la regina di Estrovia, la moglie di Shedov, che lo raggiunge in America, molto più giovane di lui, per chiedere il divorzio, salvo poi ripensarci in extremis e chiedergli di andarle a far visita a Parigi; Anna Kay, invadente rappresentante di dentifrici e deodoranti, che coinvolge il re detronizzato in vari spot pubblicitari realizzati e trasmessi dalla TV ad insaputa del monarca e lo spinge ad un intervento chirurgico che ne ringiovanisca il volto, ma che poi viene rimosso; Johnson, fastidioso agente pubblicitario che reclamizza formaggi e whiskey e che propone a Shedov di girare caroselli molto banali per i quali gli promette però incassi da favola (che Shedov è tuttavia obbligato ad accettare per rimpinguare le sue finanze, avendo in banca a malapena 915 dollari); Rupert McAbin, insolente bambino scozzese precocemente geniale, membro di una scuola che adotta metodi educativi poco convenzionali e figlio di sovversivi ricercati dalla Polizia Federale. Sarà proprio il rapporto imprevisto, ma alla fine costruttivo, con questo frugoletto, a dare a Shedov i peggiori grattacapi: i genitori di Rupert, insegnanti condannati al carcere per disprezzo verso il Congresso mai poi usciti grazie ad una condizionale, coinvolgono lo stesso regnante in un processo che, da un lato lo taccia di comunismo, ma dall’altro, come gli fa notare Anna Kay, l’ha reso pure l’uomo più popolare della nazione. Comunque, spossato da tutti questi eventi in cui sperava di non incappare, Shedov è libero di far ciò che vuole e dunque sceglie di tornare in Europa, dopo aver ricevuto la lettera della consorte che rinuncia a domandargli gli alimenti. Ma, prima di imbarcarsi sull’aereo di ritorno, un saluto a Rupert, tristissimo per la sorte toccata a papà e mamma, sarà d’obbligo. Com’è logico supporre, almeno per chi conosce la biografia del celeberrimo attore-regista, il film non fu girato negli USA, ma in Europa, in quanto Chaplin fu espulso nel 1952 dal suo Paese d’adozione per presunte simpatie filo-comuniste. Fu la sua quarta pellicola parlata e l’ultima girata in bianco e nero. Non è all’altezza di La febbre dell’oro, Luci della città o Tempi moderni, ma se è per questo nemmeno di Monsieur Verdoux, eppure non si può negare al suo autore di essersi voluto prendere una meritata e vittoriosa rivincita nei confronti del Paese che lo accusò senza giustizia né lungimiranza e lo allontanò da sé credendolo un elemento di pericolosità. Shedov, spodestato da un popolo insorgente, diventa oggetto di venerazione da parte dei mass media statunitensi, che tentano di ridicolizzarlo in ogni maniera, perché in fondo è questo il loro unico scopo; è l’occasione, per Chaplin, di puntare il dito contro la sadica e sarcastica vanità di televisione, giornali, pubblicità, cinema e radio americani, il che ci riporta al discorso della rivalsa e permette a colui che ventuno anni prima dismise i panni di Charlot (intramontabile e memorabile personaggio) di ampliare la propria lunghissima parabola artistica (e, perché no?, pure autobiografica) con una polemica veemente ma saggia sullo strapotere dei mezzi di comunicazione di massa, che possono sì accanirsi perfino contro un sovrano che ormai è stato privato del suo ruolo e della sua autorità, ma sono impediti dalla loro stessa fatuità e inconsistenza di portare a compimento ogni loro singolo obiettivo perché possono a malapena avvicinarsi mediocremente alla verità senza mai afferrarla del tutto. Doppiato in modo magistrale dal compianto Augusto Marcacci, il regista non pretende, come già ribadito, di rinverdire i fasti del glorioso passato in terra statunitense, ma, recuperando in parte anche l’orgoglio delle proprie origini britanniche col mezzo filmico e in modo non poi così velato, conquista l’obiettivo non elementare di trarre una satira intelligente che mette a nudo le problematiche, i dogmatismi, le contraddizioni, i torti e gli errori del Paese che inventò la bomba nucleare per poi continuare a fregiarsi del titolo di prima potenza politico-economica mondiale. Almeno finché, di recente, la Cina non prese il suo posto, ma questo è un discorso che nulla c’entra con questa recensione. Qui concentriamoci sul film di un attore sessantottenne che aveva ancora molto da dire, e lo disse con una precisione e una verosimiglianza da rimanere profondamente fieri di lui, per come adottò un linguaggio incapace di offendere chicchessia, un’accusa contro i progetti di bombardamenti atomici (non dimentichiamo che Shedov viene, in fondo, costretto all’esilio perché contrario ai progressi della scienza ad uso e consumo bellico) e il suo naturale amore per le gag che non dimenticano mai i tempi comici né tradiscono il filone narrativo. Ne fanno macchia almeno due: la batteria che "esplode" col suo fracasso sulla testa di Shedov all’inizio, quando è col suo capo del governo nel ristorante, e l’esilarante pompa dell’estintore quando, diretto al tribunale, il suo dito della mano destra vi si incaglia, producendo un clamoroso quanto divertentissimo incidente. A questo punto, Charles S. Chaplin, ormai diventato mito irripetibile, più unico che raro, nel campo internazionale della settima arte, avrebbe potuto risparmiarsi di girare La contessa di Hong Kong, poiché il suo repertorio, con questo A King in New York (non un capolavoro indiscutibile, ma certo un pezzo di bravura che non tutti i registi, per quanto preparati, saprebbero imbastire), era già denso di temi importanti e significativi da consentirgli di salutare il mondo del cinema a testa alta, avendogli dato tutto ciò che poteva offrirgli col suo smisurato genio ed essendo stato autore di sé stesso come nessun altro grazie ad un elenco infinito di meriti inimitabili ed eccezionali che non nascosero mai tuttavia la modestia di un uomo di cinema che sapeva quel che faceva, ma non si diede mai arie da spaccone, né pretese che la sua filmografia costituisse un panegirico indiscriminato dei tempi non certo facili in cui gli toccò di vivere. E con ciò, tanto di cappello al maestro Chaplin!

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