Orizzonti di gloria

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Un film di Stanley Kubrick. Con Ralph Meeker, Adolphe Menjou, Wayne Morris, Kirk Douglas, George Macready.
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Titolo originale Paths of Glory. Drammatico, Ratings: Kids+16, b/n durata 86 min. - USA 1957. MYMONETRO Orizzonti di gloria * * * * - valutazione media: 4,41 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Uno stupefacente pezzo di bravura antibellicista. Valutazione 4 stelle su cinque

di GreatSteven


Feedback: 70018 | altri commenti e recensioni di GreatSteven
martedì 24 ottobre 2017

ORIZZONTI DI GLORIA (USA, 1957) diretto da STANLEY KUBRICK. Interpretato da KIRK DOUGLAS, RALPH MEEKER, ADOLPHE MENJOU, GEORGE MACREADY, JOSEPH TURKEL, RICHARD ANDERSON

Prodotto dalla United Artists, fu il quarto film di Kubrick, l’ultimo in bianco e nero dei tredici che girò e, non ancora trentenne, realizzò, con la collaborazione in sceneggiatura dell’incommensurabile Calder Willingham, il migliore film antibellicista degli anni 1950. Francia, 1916: in piena Prima Guerra Mondiale, sul fronte franco-tedesco, al generale francese Paul Mirot viene proposto dal commilitone di egual rango Georges Blulart di mettere a disposizione il suo plotone per assaltare un forte germanico di fondamentale importanza denominato il Formicaio, e gli promette l’assistenza del 701° Reggimento. Mirot accetta, e affida al colonnello Darques il comando dell’impresa, che però, prevista per due giorni dopo e dunque organizzata in fretta e furia, si rivela un fallimento completo: il 60% degli uomini viene massacrato dall’esercito nemico, e lo stesso Mirot, iroso per la fretta di conquistare il forte, ordina al capitano Rousseau, comandante di batteria, di aprire il fuoco sui soldati del suo reggimento per essersi ritirati dietro i reticolati della loro stessa trincea, ottenendo per due volte un rifiuto. La cosa finisce di fronte al tribunale militare: la Corte Marziale, dietro comando di Mirot, ordina che tre tenenti delle altrettante compagnie che han preso parte all’assalto del Formicaio scelgano, a caso, altrettanti soldati da spedire di fronte alla corte. A nulla vale la mossa di Darques, conscio dell’impazienza smaniosa di Mirot di veder il forte in fiamme, che si proclama avvocato difensore dei tre imputati (il caporale Paris e i soldati semplici Arnaude e Férol) e tenta di proteggerli davanti al tribunale declamandone i meriti e osteggiando l’assurdità di un simile processo. In seguito, Darques viene accusato da Blulart di manifestare pericolose ambizioni di gloria e successo, mirate soprattutto a prendere il posto dello stesso Mirot. Niente da fare: i tre soldati, che si sono invece comportati correttamente e con coraggio sul campo di battaglia (cosa di cui Darques è più che convinto, diversamente dal tribunale militare), vengono condannati alla pena capitale, colpevoli di codardia nei confronti del nemico, per fucilazione, cui presiede controvoglia il tenente Rougier, per ordine implacabile di Darques. Quando poi emerge, da una dichiarazione scritta di proprio pugno dal colonnello, che Mirot ha ordinato, mediante il capitano Rousseau l’assassinio indiscriminato dei suoi soldati per non aver oltrepassato la terra di nessuno, Darques rischia di finire nei guai per reato d’insubordinazione, ma si prende una rivincita denunciando lo spietato omicidio di tre innocenti e coprendo d’ingiurie il superiore Blulart. Nel finale, vediamo l’onesto e integerrimo colonnello assistere, dall’esterno di una birreria, all’esibizione di una cantante tedesca che viene presentata dall’oste e fischiata da un pubblico di soldati francesi in vena di facezie. Raggiunto da un sergente, il colonnello concede ancora qualche minuto di riposo alla truppa di superstiti che ha comandato durante l’attacco al Formicaio e lo vediamo scomparire dietro il portone di legno dello Stato Maggiore. È una pellicola unica nel suo genere per come prende di petto il suo antimilitarismo, puntando un dito straordinariamente accusatore contro l’incoscienza megalomanica dei generali che, pur di dare un esempio da loro ritenuto formativo ai soldati, ordiscono di tanto in tanto fucilazioni affinché i loro commilitoni rimasti in vita riescano a combattere con più furore e ferocia di prima. Un film di guerra che, come accade assai di rado, è un film d’attori pur senza essere al contempo un’opera corale: abbiamo un Douglas in formissima (che tre anni dopo lavorerà ancora con Kubrick nel tristissimo e sublime Spartacus) nei panni del colonnello, ufficiale positivo in mezzo a guerrafondai profondamente radicati e uomo dai sani principi che difende fino allo sfinimento i valori sui quali si basano l’umanità e la benignità, e la sua recitazione perfetta per accanimento e ardore fa da adeguato contrappeso ad una coppia bizzarra, ma efficace, di insoliti antagonisti come G. Macready e A. Menjou, rispettivamente nelle vesti dei generali Mirot e Blulart, razzisti nei riguardi dell’armata avversaria e desiderosi di vincere il conflitto al più presto, disinteressandosi nella più inumana completezza di quanti uomini ai loro comandi muoiano affinché il tentativo ottenga il risultato sperato. Kubrick realizzò il suo secondo capolavoro, dopo l’ottimo Rapina a mano armata (1956), dilatando di pochi minuti la durata e imbastendo un elogio alla benevolenza disperata e intensa nell’immenso inferno della guerra di posizione, e lo si intuisce bene nelle sequenze a campo lungo nelle quali gli ufficiali passano in rassegna le truppe in trincea per vedere come procedono le battaglie. Il terzetto dei soldati innocenti condannati alla pena di morte è anch’esso una carta vincente nella recitazione complessiva del film, consegnando al pubblico, durante la scena straziante della fucilazione, uno degli stralci più commoventi che la settima arte, in qualunque epoca, abbia saputo fornire alla propria storia, e il fatto che porti la firma di S. Kubrick dimostra il suo genio registico, la sua determinata presa di posizione contro la violenza infruttuosa e ingiustificata (o meglio, ingiustificabile), la sua capacità di tirare fuori il meglio dai contributi tecnici (menzioni speciali vanno infatti ad un montaggio che rappresenta con gagliardo realismo i bombardamenti nel corso dell’aggressione frontale al forte e ad una colonna sonora che introduce l’opera con le note iniziali dell’inno nazionale francese e lo conclude con un mormorio cupo e introverso che ne sottolinea appieno il carattere ardente e focoso) e l’abilità nel condurre un mestiere difficile quando si ha a che fare con la gestione d’un materiale narrativo non certo poco scottante come la guerra, che va gestito considerando gli scivoloni in cui si può incorrere, gli onnipresenti rischi di retorica, i panegirici che possono essere tessuti addosso ai militari senza la benché minima distinzione di grado e l’esito conclusivo che può far abbordare ad un porto diametralmente opposto a quello che commina al conflitto armato la causa peggiore di perdita irreparabile di vite umane. Raccontando una triplice carneficina dominata dallo strapotere della casta militaresca, colui che fu probabilmente il più grande regista nella storia del cinema fu capace di narrare una storia che non nasconde un odio inveterato contro la caccia sanguinaria allo scranno del comando supremo (politico e soldatesco assieme, impresa molto più complicata di quanto si immagini di norma) e reagisce ad esso con un protagonista indimenticabile (un Douglas che sta ormai per compiere la veneranda età di 101 anni!) che si fa paladino della giustizia e, benché rimanga inascoltato e veda disattese le sue nobili aspettative, non rinuncia al suo onore e, nonostante un evidente pizzico di orgoglio, promuove la sua battaglia personale che è ben più importante di quella vera e propria al fronte giacché combatte disvalori imperdonabili quali l’ipocrisia, la gerontocrazia, l’arrivismo (egli stesso ne viene tacciato con ingiustizia), il tradimento verso chi invece meriterebbe fiducia e rispetto e il voltafaccia davanti ad una sconfitta per la vigliaccheria di ammettere uno sbaglio e la presunzione prepotente di attribuire la colpa di un insuccesso a coloro che non possono muovere difese perché al di sotto di una tale possibilità, o meglio, perché impossibilitati dall’uniforme che indossano. Uniforme per cui rischiano quotidianamente la vita per poi essere ricompensati con una condanna a morte. Discorso oggi più che mai attuale e applicabile a innumerevoli casi della vita militare e non del Nuovo Millennio. E malgrado Kubrick, morto nel 1999, non abbia potuto arrivarvi, lo anticipò con una lungimiranza che fa di lui una persona speciale in quanto uomo e in quanto artista, un fenomeno in carne ed ossa grandiosamente in grado di prevedere i tempi e gli svolgimenti degli eventi dalla loro prospettiva più cruenta e veritiera.

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