I vitelloni

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Un film di Federico Fellini. Con Leopoldo Trieste, Alberto Sordi, Franco Interlenghi, Franco Fabrizi, Leonora Ruffo.
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Commedia, Ratings: Kids+16, b/n durata 104 min. - Italia 1953. - Cineteca di Bologna MYMONETRO I vitelloni * * * * 1/2 valutazione media: 4,62 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

La vita scialba e gaudente di 5 eterni ragazzini. Valutazione 4 stelle su cinque

di Great Steven


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mercoledì 2 novembre 2016

 

I VITELLONI (IT/FR, 1953) diretto da FEDERICO FELINI. Interpretato da ALBERTO SORDI, FRANCO FABRIZI, FRANCO INTERLENGHI, LEOPOLDO TRIESTE, RICCARDO FELLINI, LEONORA RUFFO, ACHILLE MAJERONI, PAOLA BORBONI, CARLO ROMANO

In una cittadina della riviera romagnola, campano alla meno peggio cinque ragazzacci che trascorrono il loro intero tempo fra scherzi, divertimenti, pettegolezzi di quartiere e ciarlatanerie della specie più pigra e indolente. Ormai sulla soglia dell’età adulta, non pensano a crescere e preferiscono sollazzarsi il più possibile, invece che sistemarsi trovando un mestiere e impegnandosi in un’esistenza seria e laboriosa. Il gruppo è composto da: Alberto, punto nevralgico di fusione fra cattiveria e servilismo, appassionato di biliardo, perditempo inguaribile fra caffè e locali malfamati, che troverà un’occasione di divertimento felicemente fine a sé stesso nell’annuale festa di Carnevale che si tiene come sempre nel teatro comunale, ma che si vedrà pure abbandonato dalla sorella Olga, stanca di come il fratello tratti lei e la vecchia madre vedova con la consueta, infantile superficialità; Leopoldo, commediografo occhialuto a tempo perso, un po’ invaghito della querula e giovanissima vicina di casa, che proporrà un suo testo teatrale ad un vecchio e consumato attore che, più che alla commedia, sembra interessato al suo autore; Riccardo, ragazzone ben piantato con una voce squillante di cui fa sfoggio ogni anno in occasione dei festeggiamenti per l’elezione di Miss Sirena, che nel 1953 vede salire sul podio la graziosa e delicata Sandra; Moraldo, fratello di quest’ultima, il più giovane e introverso della combriccola, quello meno incline alle scelleratezze e a consumare i giorni senza rincorrere sogni e aspettative, l’unico che saprà, un certo giorno, prendere una risoluzione decisiva e andarsene in città prendendo il primo treno dell’alba; e infine Fausto, il vitellone a cui il film dedica il maggior spazio narrativo, campagnolo inurbato (come direbbe Francesco Guccini) e imborghesito, figlio di un padre violento ma saggio e con una sorellina molto più piccola di lui, che diverrà il cognato di Moraldo sposando Sandra dopo averla messa in gran segreto incinta, e dalla loro unione nascerà un bambino, per quanto Fausto, impiegato per qualche tempo in un negozio di statue il cui proprietario è un amico di suo suocero e successivamente licenziato per alcune avances perpetrate ai danni della moglie del padrone, faccia di tutto e quasi senza volontà propria per sfasciare le cose belle della sua famiglia, soprattutto tradendo ripetutamente la moglie con donne non proprio raccomandabili. Questo il contesto narrativo del secondo film e mezzo di Fellini, incentrato sulla sua infanzia nella Romagna che si stava lentamente affacciando al miracolo economico, ma ancora sperduta dietro a un’atmosfera di sogni disillusi e speranze giovanili coltivate ma mai realizzate nella loro ideale perfezione. Il regista riminese lo ha popolato di piccoli personaggi che imbastiscono una recitazione corale molto convincente, dando ampio sfogo e voce alle ambizioni di una generazione nel suo complesso, carica di rancori, delusioni e tristezze, ma anche di una voglia tutto sommato innocente e non esecrabile di non danneggiare nessuno, con l’intento anzi di vedere tutti contenti o quantomeno sereni. Magari evitando lo scoglio faticoso del lavoro, ma pur sempre inseguendo una speranza benefica che rendesse amici, parenti e conoscenti soddisfatti dei propri cari e non li spingesse giammai a ripudi, rifiuti, polemiche e abbandoni. Lo stile del regista non era ancora affinato come si dimostrò coi successivi capolavori che, al pari de I vitelloni, si imperniarono sull’infanzia onirica e densa di immagini superlative (Amarcord ed E la nave va su tutti), ma dopo l’esperienza individuale de Lo sceicco bianco (1952), il 33enne regista-sceneggiatore, oltre ad aver già collaudato un Sordi più che mai convinto e promettente, rivelò di possedere già le carte in regola per ritagliarsi un posto d’onore nella cinematografia nostrana ed estera, grazie ad un talento visionario davvero poco comune e perciò meravigliosamente invidiabile, e nella fattispecie per merito di una direzione che, pur non abbracciando minimamente la sobrietà, non scade mai nella sovrabbondanza né agguanta mai pretesti forzati per raffigurare un prodotto audiovisivo pregno di magnifiche sottigliezze, umori altalenanti, battute sarcastiche, messa in scena sagace, durata ragionata dei colpi di scena e calcolo quasi infinitesimale della tensione drammatica, pronta ad accumularsi in un cantuccio e, subito dopo, all’improvviso, esplodere nella sua completezza raggiante e straziante insieme, coadiuvata da una sceneggiatura eccellente (scritta insieme ad Ennio Flaiano, su soggetto pensato dai due insieme a Tullio Pinelli), capacissima di privilegiare i momenti omeostatici alternandoli agli intermezzi musicali e di squisita comicità, in coppia con la perizia innegabile e inesauribile dei suoi interpreti (ben di rado, in futuro, Fellini avrebbe potuto contare su un cast così affiatato e competente). I meriti di Sordi vanno ben al di là della famosa scena della pernacchia ai lavoratori della malta, in quanto all’epoca ci fu qualche critico poco lungimirante che lo ridimensionò così, mentre per quanto concerne gli altri attori non si possono che spendere parole di celebrazione e lode: un Trieste misurato e speranzoso (con la voce di Adolfo Geri) nel ruolo dello scrittore che sogna ad occhi aperti; R. Fellini (fratello del regista), un po’ in disparte, ma nei panni funzionali di un buontempone aperto alle amicizie; un Fabrizi (doppiato da Nino Manfredi) ormai consacrato nei suoi panni abituali e infallibili di latin lover un po’ sornione e vigliacco, fedifrago ma tutt’altro che malvagio o manipolatore; un Interlenghi timido, a briglia stretta e raziocinante, il solo che alla fine si decide a prendere il coraggio a quattro mani e affrontare a viso scoperto il destino. Ottimi anche i contributi di L. Ruffo, la bella e innocente Sandra, e del compianto doppiatore C. Romano (1908-1975, uno dei più rappresentativi della cosiddetta prima generazione del doppiaggio), che interpreta con puntiglio al vetriolo e simpatia eversiva il proprietario del negozio di articoli religiosi in cui Fausto presta per breve tempo servizio. Leone d’Argento alla 14° Mostra del Cinema di Venezia. Due nastri d’Argento alla cerimonia del 1954: regia e attore non protagonista (Sordi). Premiato giustamente da un successo di pubblico tutt’altro che modesto o titubante. 

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