Rivisitazione del mito di Orfeo da parte di un poeta, Jean Cocteau, che nel metter mano alla cinepresa affoga nel ridicolo le sue buone intenzioni e tutte le aspirazioni ad una reincarnazione del cantore dell’Ade nella Francia del dopoguerra naufragano nel paio di guanti in lattice, del tipo di quelli usati per fare le pulizie, che donerebbero la facoltà di attraversare i due mondi, penetrando gli specchi come se fossero d’acqua, o nella tragicomica rappresentazione degli sgherri della Morte, vestiti come due poliziotti della stradale, dotati di mitra e con i quali addirittura sparano sui flic.
La poesia mal si concilia con i guanti in lattice, che evocano più che le tenebre orrende dell’oltretomba o i misteri orfici, una massaia che si appresta a lavare i piatti.
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Rivisitazione del mito di Orfeo da parte di un poeta, Jean Cocteau, che nel metter mano alla cinepresa affoga nel ridicolo le sue buone intenzioni e tutte le aspirazioni ad una reincarnazione del cantore dell’Ade nella Francia del dopoguerra naufragano nel paio di guanti in lattice, del tipo di quelli usati per fare le pulizie, che donerebbero la facoltà di attraversare i due mondi, penetrando gli specchi come se fossero d’acqua, o nella tragicomica rappresentazione degli sgherri della Morte, vestiti come due poliziotti della stradale, dotati di mitra e con i quali addirittura sparano sui flic.
La poesia mal si concilia con i guanti in lattice, che evocano più che le tenebre orrende dell’oltretomba o i misteri orfici, una massaia che si appresta a lavare i piatti.
Jean Marais, d’altronde, piuttosto che un redivivo Orfeo, con quell’aria indisponente perennemente stampata sul volto e la strafottenza di un ragazzo viziato, sembra un giovanotto della piccola borghesia divenuto famoso per caso, che si dispera delle attenzioni morbose delle sue fans, attaccato dalle associazioni femministe che nelle intenzioni del regista dovrebbero riproporre le Baccanti ai nostri giorni, ma che in realtà non hanno nulla di dionisiaco.
Alcuni effetti speciali di basso livello non fanno altro che peggiorare la situazione. In tale contesto di assoluta inverosimiglianza e distanza abissale dalle atmosfere oniriche che dovrebbero avvolgere una vicenda che si svolge nella terra di mezzo che non appartiene né ai vivi né ai morti, l’immedesimazione nella storia è impossibile ed il film risulta disturbante e spesso noioso, se non a tratti involontariamente divertente.
Il finale, poi, è privo di qualsiasi evocazione magica che apparenti in qualche modo la narrazione contemporanea alla figura mitologica, ricadendo in una visione della Morte pietosa, lontana dal dio della morte greco, tutt’altro che caritatevole e compassionevole, compartecipe della sorte coniugale di Orfeo ed Euridice e vittima essa stessa di un sistema governato da anonimi burocrati e tribunali che emettono sentenze incomprensibili.
Più convincente François Périer nella parte del povero diavolo o meglio psicopompo triste, succubo ed allo stesso tempo ribelle verso la sua padrona e che ama Euridice senza avere il coraggio di dichiararsi. L’unico personaggio degno di nota, fantasma che non si rassegna alla propria morte pur compiacendosi di non appartenere alla schiera dei vivi nel vedere di che pasta è fatto il mitico cantore, in verità mediocre e vanesio narciso che, evidentemente, anche per lui, non ha nulla a che fare con l’Orfeo della tradizione misterica ellenistica.
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