Anno | 2022 |
Genere | Documentario |
Durata | 70 minuti |
Regia di | Matteo Abbondanza |
MYmonetro | Valutazione: 2,50 Stelle, sulla base di 1 recensione. |
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Ultimo aggiornamento mercoledì 28 settembre 2022
Storie diverse, tutti di fronte allo stesso limite, allo stesso confine. Quello che separa il Messico dagli Stati Uniti. Un confine che non è uguale per tutti.
CONSIGLIATO NÌ
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Tijuana è l'ultimo - o il primo - paese del Messico: dopo ci sono gli Stati Uniti. Ma in mezzo c'è un muro, il muro voluto da Trump. Il muro dove ancora si infrangono i sogni di molti. C'è chi attraversa quel confine ogni giorno, tre ore di coda all'andata alla frontiera e tre al ritorno, per studiare negli Stati Uniti. C'è chi quel confine non lo può varcare, perché non riesce a ottenere il visto. C'è chi è stato ricacciato via, magari dopo anni, e ha dovuto lasciare i figli negli Stati Uniti, e tornarsene nella sua terra d'origine, dominata da ricatti e vessazioni. C'è chi ha scelto, da americano, di vivere lì, a Tijuana: "Qui hanno un rapporto più diretto con la morte, qui vivono il presente, perché sanno che è l'unica cosa che c'è". E ogni giorno fa arrivare turisti americani per dare loro un'esperienza "diversa". Un mosaico di interviste che raccontano le molte facce di Tijuana, che ha anche il triste primato della violenza e dei morti legati al commercio di droga.
Personaggi diversi che vivono di qua dal confine con gli Stati Uniti: alcuni per scelta, altri perché deportati, ricacciati indietro dopo anni di vita e lavoro negli Usa. In mezzo, un muro che arriva fino al mare, e che un artista cerca di rendere meno disumano.
Ci vuole un po' di tempo perché il mosaico prenda forma. Ci vuole un po' di tempo perché tutte le interviste, tutte le parole inizino a comporre un quadro. Poi il quadro si compone. Capisci, se non altro, che la realtà a Tijuana è più complessa di quanto tu potessi immaginare. Te lo dicono le parole, le storie delle persone che vedi. Più ancora del commento, letto dalla voce fuori campo di Federico Quaranta: una voce nitida, che abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare per la sua passione in molte trasmissioni. Ma che qui resta un po' un corpo estraneo, diversa nei toni, nell'impostazione, nel "mood" dal concerto delle altre voci, quelle dei testimoni, che raccontano ciascuno la propria storia, la propria battaglia.
Mi ero sempre chiesto come fosse Tijuana: avamposto del Messico, terra di clandestini, di americani in fuga? Non l'avevo mai vista, o forse sì: in Babel di Alejandro Inarritu, quando la tata con i figli di Brad Pitt e Cate Blanchett va in Messico non può che approdare a Tijuana. È lì che fanno quella festa con spari e alcol. È da lì che ritornare negli Stati Uniti si rivela un'impresa disperata, per chi ha la pelle scura ed è sospettato "a prescindere".
Però non ne sapevo molto. Come era, come è Tijuana? Terra di gangsters, di cartelli della droga che si combattono? Città di locali, night, bordelli per americani? Anche. E infatti, anche Traffic di Soderbergh è girato a Tijuana. Ma non è lì che il film guarda. Il film racconta chi a Tijuana si trova a vivere, chi vi si trova imprigionato, chi ha scelto di viverci, chi c'è stato ricacciato a forza.
Che immagine ne viene fuori? Per una coppia di messicani, che si sono trovati costretti a viverci, perché lei non può più ottenere il visto di ingresso negli Usa, Tjuana è una città di accoglienza, di solidarietà, dove nessuno discrimina nessuno. Forse è anche un po' il partito preso del regista, che intervista a lungo un ragazzo americano dell'Ohio che ha scelto di vivere a Tijuana, perché "qui hanno un rapporto più forte con la morte e con la vita, qui mi hanno insegnato a vivere nel presente: negli Stati Uniti tutti pensano al futuro, ma il futuro non esiste".
Il film oscilla fra esistenzialismo e critica sociale, fra estetismo di alcune immagini e documentarismo militante. Non è chiarissimo la strada che ha scelto: la felicità dei due sposi, che tuttavia non possono rientrare negli Stati Uniti? Sono loro che occupano i primi dieci minuti di film. Poi vediamo il Muro, il muro della vergogna voluto da Trump, ma che Biden non intende affatto abbattere. Un muro di cemento e lamiera, che un artista ha trasformato - dalla parte messicana, naturalmente - in una enorme tela, in uno spazio adatto all'arte preferita dei messicani: il mural. Ed è diventato un immenso mural collettivo, dove ognuno ha scritto o dipinto qualcosa. Rimane la domanda di un bambino, che sull'autobus vede il muro tagliare la spiaggia. "Mamma, perché c'è un muro se la terra è uguale di qua e di là?".
La terra di qua e di là è uguale, le vite no. Gli agenti americani alla frontiera sono diffidenti, pignoli, aggressivi, sospettosi. Ma soprattutto, c'è il problema di chi ha vissuto negli Stati Uniti, e si è visto negare il rinnovo del visto. Costretto a scegliere se vivere da clandestino negli Usa o tornare. Molti di loro sono stati catturati e "deportati" a Tijuana, mentre i loro figli, nati negli Stati Uniti, sono rimasti di là del muro.
Le informazioni che la voce fuori campo ci offre sembrano molto chiare: in realtà non tutto è chiarissimo, non tutto sembra consequenziale. E non tutto quello che viene detto sembra strettamente legato alle storie che ascoltiamo.
Il racconto sui ragazzini distaccati dalle famiglie che fanno uso di droghe e si suicidano, le immagini di Tijuana come una Las Vegas coloratissima, da film di Scorsese, mentre il racconto parla della Tijuana degli anni '20. Tijuana come Sodoma e Gomorra negli anni dei gangster, Tijuana con numerosi centri culturali e universitari, ma anche Tijuana che ha il record degli omicidi. La sensazione è che le immagini suggestive e le storie dei personaggi intervistati abbiano finito per prevalere, senza che un lavoro di montaggio più paziente le cucisse in un discorso filato, in un racconto più coeso, più conseguente.
Matteo Abbondanza racconta Tijuana, l’ultimo – o il primo – paese del Messico: dopo ci sono gli Stati Uniti. Ma in mezzo c’è un muro, il muro voluto da Trump. Il muro dove ancora si infrangono i sogni di molti.
Ci vuole un po’ di tempo perché il mosaico prenda forma. Ci vuole un po’ di tempo perché tutte le interviste, tutte le parole inizino a comporre un quadro. Poi il quadro si compone. Capisci, se non altro, che la realtà a Tijuana è più complessa di quanto tu potessi immaginare. Te lo dicono le parole, le storie delle persone che vedi. Più ancora del commento, letto dalla voce fuori campo di Federico Quaranta: una voce nitida, che abbiamo imparato a conoscere e ad apprezzare per la sua passione in molte trasmissioni.
Che immagine ne viene fuori? Per una coppia di messicani, che si sono trovati costretti a viverci, perché lei non può più ottenere il visto di ingresso negli Usa, Tjuana è una città di accoglienza, di solidarietà, dove nessuno discrimina nessuno. Forse è anche un po’ il partito preso del regista, che intervista a lungo un ragazzo americano dell’Ohio che ha scelto di vivere a Tijuana, perché “qui hanno un rapporto più forte con la morte e con la vita, qui mi hanno insegnato a vivere nel presente: negli Stati Uniti tutti pensano al futuro, ma il futuro non esiste”.