Titolo originale | Déjà s'envole la fleur maigre |
Anno | 1960 |
Genere | Drammatico, |
Produzione | Belgio |
Durata | 85 minuti |
Regia di | Paul Meyer |
Attori | Valentino Gentili, Luigi Favotto, Domenico Mescolini . |
Uscita | giovedì 10 novembre 1994 |
Distribuzione | Libra Film |
MYmonetro | 3,25 su 2 recensioni tra critica, pubblico e dizionari. |
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Ultimo aggiornamento giovedì 12 aprile 2018
Un emigrato italiano in Belgio, Pietro, riceve la famiglia alla stazione del centro minerario di Borinage: la moglie e quattro figli.
CONSIGLIATO SÌ
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Nel 1959, l'anno in cui fu girato Già vola il fiore magro, il cinema belga si limitava ai documentari di Henri Storck e a qualche commedia leggera destinata alla consumazione locale. Paul Meyer fu il primo, e in anticipo di qualche anno su André Delvaux e Chantal Akerman, a farlo uscire dal suo torpore. Il primo a riabilitarlo. Al debutto degli anni Sessanta, il ministero dell'educazione belga lo incarica di realizzare un cortometraggio di propaganda sull'integrazione dei figli dei lavoratori immigrati in Borinage, una regione del Belgio che vive(va) sull'estrazione del carbone. Ma sul posto, il regista scopre la realtà delle baracche, dei muri alzati e della chiusura prossima delle miniere.
Il progetto di raccontare una regione indigente come il paese della cuccagna volge nella cronaca di una comunità di minatori provenienti da tutta Europa.
Tra loro un vecchio operaio in pensione insegna a un ragazzino le parole che declinano il disastro sociale e umano che vive la regione: Borinage - charbonnage (miniera) - chômage (disoccupazione). Il film si apre sull'arrivo di una famiglia siciliana trasferitasi per raggiungere il capofamiglia alla vigilia di una crisi che chiude le miniere e lascia soltanto la poesia delle immagini di Paul Meyer. Su tutte, la discesa vertiginosa di un gruppo di fanciulli lungo un pendio e a cavallo di coperchi di latta. In questa regione nera e senza speranza, il personaggio di Domenico si fa portavoce della memoria della storia operaia e del paesaggio. Come farà anni più tardi Ken Loach, Paul Meyer lascia che sia la 'vera gente' a recitare il proprio ruolo. Le scene si succedono 'in presa diretta' immerse in un bianco e nero che ha la bellezza senza trucco delle foto di famiglia degli anni Cinquanta.
Opera unica e lungamente occultata, Già vola il fiore magro invita lo spettatore ad osservare la desolante bellezza di una terra abbandonata, evocando la vita degli immigrati, quelli che arrivano alla ricerca di un lavoro e quelli che vorrebbero soltanto ritornare alle loro case in Italia. Con un senso plastico stordente, l'autore mette 'in finzione' il reale e inventa una maniera inedita di empatia cinematografica, riuscendo a esprimere le reali condizioni dei lavoratori di una regione in declino con un trattamento poetico straordinario che non oscura mai l'alterità del soggetto. La riuscita del film si deve proprio alla capacità di Meyer di coniugare all'ascolto e all'osservazione una volontà di indipendenza irriducibile. 'Scomunicato' dal governo belga, che non gradì la verità, il suo documentario ha la malinconia scorata del verso di Salvatore Quasimodo, che ispira il titolo.
Film poetico e sociale, mai didattico e di una modernità corroborante, Già vola il fiore magro è vicino ai suoi personaggi senza scadere nell'operaismo, quell'atteggiamento velleitario di solidarietà ai problemi e alla lotta operaia raccontato così bene in una canzone di Giorgio Gaber ("Al bar Casablanca"). L'integrazione dei figli dell'emigrazione, che passa nel film per quel primo e sorprendente giorno di scuola, non ha perduto niente della sua attualità. Al contrario è al centro di promesse populiste che non tengono conto sovente della memoria di chi ha lottato per guadagnarsi un posto di lavoro e un posto nel mondo. Anche per questo è urgente rivedere il documentario di Paul Meyer.