Irene Bignardi
La Repubblica
Fearless - Senza paura è uno di quei film che dividono, perché viaggia sul filo di reazioni troppo personali e perché flirta con un’esperienza che tocca gli spettatori in maniera troppo diversa: quella della morte di chi ci è vicino, quella della morte da cui si scampa.
Appartengo, e mi spiace, al gruppo di quelli che hanno trovato il film forzato, e il discorso che porta avanti sempre a rischio di grottesco. Ci vuole ben altro per parlare seriamente del senso della perdita, del complesso del sopravvissuto, della sensazione di immortalità di chi scampa a un disastro, che non le manifestazioni di eccitata frenesia messe in atto da Jeff Bridges.
Bella (e iettatoria) la scena iniziale: in un campo annebbiato dai fuochi e invaso dai rottami, un uomo si aggira senza meta con un bambino in braccio e uno per mano. Mentre la prospettiva si allarga ci rendiamo conto che siamo di fronte all’apocalisse di un disastro aereo. Nel quale è morto il socio di Jeff Bridges che viaggiava con lui. Scopriremo che Bridges è un architetto di grido, sposato a una bella signora (Isabella Rossellini), padre di un bel bambino. Che si è comportato eroicamente nel momento del disastro. E che dopo l’incidente la sua visione della vita è pervasa da uno stato di quasi euforia, da un sentimento di immortalità e insieme da un senso di colpa inespresso. Elementi tutti che tendono ad allontanarlo dalla vita di ogni giorno in famiglia e sul lavoro: quasi un complesso di superiorità “filosofica” nei confronti di chi - sua moglie, suo figlio, gli amici - non ha condiviso la traumatica esperienza di sfiorare la morte.
Non so su quali dati scientifici o psicologici si basi la storia costruita dallo sceneggiatore Rafael Yglesias. Ma il risultato, per la mancanza di profondità della scrittura e per la non particolare finezza dell’interpretazione di Jeff Bridges, sfiora spesso l’enunciazione pura di un’idea e il grottesco di una rappresentazione. Anche perché non aiuta il personaggio di Carla (la minuscola Rosie Perez), una chicana che ha perduto il suo bambino nell’incidente e che vive, rispetto a quel ricordo, un’esperienza diametralmente opposta: non l’euforia della sopravvissuta, appunto, ma il lutto della perdita.
Tra l’architetto bene e la ragazza povera, mentre l’avvocato Tom Hulce si dà da fare come può per spillare soldi all’assicurazione e lo psicologo della compagnia aerea (John Turturro) dice le solite banalità da manuale, si stabilisce una relazione forte e intensa, che mette al margine tutti coloro che non hanno partecipato, in un senso o nell’altro, del trauma dei sopravvissuti alla tragedia.
Ma al film manca ogni senso di verità, e il pallino americano per la psicologia facile produce una delle gag più patetiche degli ultimi tempi: dopo aver cercato con un incidente d’auto premeditato di rivivere il trauma della tragedia aerea a beneficio di Carla, tormentata dal senso di colpa per non essere riuscita a salvare il suo bambino, Jeff Bridges sfida la morte mangiando il frutto proibito. E cioè una fragola, a cui è sempre stato tragicamente allergico.
Niente paura, finisce tutto bene: nell’architetto Max Klein la volontà di vivere è ormai radicata fortissima, le fragole sono innocue. Ma nessuno ha detto a Weir e a Yglesias che se anche l’idea può avere qualche base nella realtà, è assolutamente ridicola nella drammaturgia.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996