Irene Bignardi
La Repubblica
Due grandi film del 1989, Affari sporchi di Mike Figgis, e Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese, parlano di guardie e di ladri. Delle guardie corrotte del dipartimento di polizia di Los Angeles, dove Richard Gere è l’anima nera di un sistema di sfruttamento e di violenza mefistofelica ai danni di chi non ci sta (in un film in cui i ladri quasi non si vedono). E dei ladri (i maflosi) raccontati da Scorsese nella loro antropologia quotidiana, di cui la solidarietà etnica e culturale è una parte determinante, in una storia autentica dove la polizia sotto forma di Fbi compare solo nel gran finale.
Sidney Lumet arriva ora con Terzo grado a completare il quadro di una società corrotta e sottilmente razzista intrecciando storie di guardie a storie di ladri. Il suo film è tratto da Q & A (Question and Answer, domanda e risposta), il romanzo quasi cronaca di Edwin Torres, già giudice della Corte Suprema di New York, che ha già collaborato con Lumet come consulente tecnico per Il principe della città. E Torres garantisce che tutto quello che racconta è vero, solo i nomi sono diversi.
Come già ai tempi di Il principe della città, ma purtroppo con assai minore asciuttezza e lasciandosi andare alle regole del genere poliziesco in un momento in cui la deregulation è d’obbligo, Lumet denuncia la rete di complicità, di omertà, e di corruzione all’interno della polizia e del sistema giudiziario di New York, e i suoi intrecci con le linee della solidarietà etnica: irlandesi per gli irlandesi e latini per i latini (almeno nei presupposti...). Purtroppo la facile scelta della spettacolarità, anche di grana grossa, rischia di sciupare l’effetto di una denuncia circostanziata e precisa; così come è uno scempio (ma questa volta la colpa è solo dell’edizione italiana) il grottesco doppiaggio con cui i latini vengono fatti parlare.
A far pendere la bilancia dalla parte del film di gangster contribuisce soprattutto Nick Nolte, grande come un armadio, tinto di scuro e perennemente esagitato, che prima stecchisce a sangue freddo uno spacciatore, e poi vuol gabellare l’assassinio per legittima difesa. Suo complice, in questo cover-up, è il procuratore capo (Patrick O’Neal), che affida il caso a un procuratore distrettuale appena nominato (Timothy Hutton), sicuro che non si sognerà mai di smascherare quel nido di vipere che è la polizia.
Ma un po’ la tigna, un po’ il fattore umano (c’è di mezzo una donna da lui molto amata, che è ora la moglie di Armand Assante, boss della droga sulla via del ravvedimento e pronto a collaborare) fanno sì che il giovane magistrato arrivi sino in fondo (o quasi) con conseguenze spiacevoli per tutti. Anche per lui, che, senza saperlo, ha un cadavere nell’armadio. E l’omertà diventa la sola risposta possibile.
Per chi ha ammirato il rigore di Il principe della città (o l’originalità di Serpico) il film è una delusione. Stenta a partire e una volta a regime procede nella maniera più prevedibile, compresi i risvolti psicologici, l’andamento inevitabilmente sanguinolento e un dibattito di modesto livello sul problema etnico.
Routine, insomma, e anche di grana grossa: se non fosse per la denuncia, che esce durissima e senza speranza; e per una avvertibile volontà civile che continua a essere un elemento di forza del cinema americano.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996