Lietta Tornabuoni
L'Espresso
Ci sono alcune scene di sesso magnifiche, ne La moglie dell’avvocato del coreano Im Sangsoo, e non perché siano apprezzabili esteticamente, ma per la loro naturalezza e violenza, per la forza dei desideri, per l’erotismo acrobatico delle donne. Storia di famiglia, il film che l’anno scorso era in concorso alla Mostra di Venezia ha una speciale importanza sociale: i suoi protagonisti appartengono a quella generazione nata negli anni Sessanta che ha sperimentato in Corea una nuova democrazia, un benessere alto-borghese ignorato nel passato, una aspettativa di vita piena e felice; ma che nello stesso tempo non può cancellare la memoria d’una ferocia, il mutamento troppo recente.
La famiglia dell’avvocato è benestante, elegante. Il marito, professionista di successo, ha troppo lavoro e un’amante giovane, sensuale. La bella moglie, ex ballerina, continua a esercitarsi in palestra, percorre la città in bicicletta, è vestita bene, si occupa del bambino adottato ossessionato dalla propria condizione, s’invaghisce d’uno studente diciassettenne. Il padre del marito, drastico e sprezzante («È una follia aver eletto quel mandriano pazzo di Bush, davvero gli americani non capiscono niente») agonizza e poi muore di cirrosi epatica. La madre del marito scopre il sesso, ha un amante e lo sposerà, «finalmente sono padrona di me stessa e della mia vita». L’esistenza della famiglia è attraversata da lampi crudeli, scandita da episodi che evocano un passato di carnefici e di sopravvissuti: viene scoperta una fossa piena di teschi e d’altri resti umani, esplode negli scontri una polizia illegale e brutale, la città notturna è livida e silenziosa, un matto prende il bambino adottato e lo uccide una donna urla, si rotola, piange sotto la pioggia.
Una contraddizione tra civiltà borghese acquisita e barbarie radicata, un bellissimo stile, il disfarsi finale della famiglia: la moglie dell’avvocato è incinta, «Non sei tu il padre»; «Non ha importanza»; «Ma io non ti voglio più». Il parallelismo è significativo e anche terribile.
Da l’Espresso, 5 agosto 2004
di Lietta Tornabuoni, 5 agosto 2004