"Il mio cinema è un dialogo fatto d'immagini, come per la pittura".
La labilità del confine tra amore e odio è resa magistralmente dall'analisi della filmografia di uno dei registi contemporanei più controversi: Kim-Ki-Duk. Tacciato di essere un visionario in patria e osannato, invece, con una pioggia di riconoscimenti nel vecchio continente, Kim in Europa sembra aver trovato l'America. Distribuite in Italia dal 2003, le opere del regista coreano si distinguono per la ricorrenza di tematiche ed elementi duri, mostrati allo spettatore in maniera fredda e quasi naturale. Parliamo di una violenza che a differenza di tanto cinema contemporaneo, non appare mai fine a se stessa ma, piuttosto, inglobata all'interno di un quadro più grande ed elevato che è quello dell'analisi dell'animo umano, del mutismo che caratterizza la maggior parte dei personaggi che abitano le sue storie, simbolo di una reazione, anch'essa fredda e quasi incosciente, di chi oppone ai soprusi della vita la rinuncia alla comunicazione verbale. Elementi questi che, miscelati a scelte stilistiche e narrative fortemente innovative, danno vita a una forma totalmente estranea a paragoni e parallelismi, scaturita, invece, dalla passione di un autodidatta che il cinema non lo ha mai studiato né sotto l'aspetto teorico né nella pratica.
Gli esordi
Kim-Ki-Duk, infatti, nasce nel 1960 a Bonghwa, piccolo villaggio della Corea del Sud, trasferendosi all'età di nove anni a Seoul, dove frequenta una scuola di avviamento professionale al settore agricolo. Abbandonati gli studi per problemi familiari si arruola, all'età di vent'anni, nell'esercito, esperienza questa che condizionerà profondamente il suo modo di vedere i rapporti interpersonali e, conseguentemente, l'estro e la creatività al servizio dell'arte. Parentesi altrettanto importante è quella che lo vede avvicinarsi alla religione, trascorrendo due anni in una chiesa per ciechi col fine di diventare predicatore. L'arte però, altra passione coltivata negli anni, lo trascina violentemente fuori dal suo passato, portandolo ad intraprendere un viaggio nel vecchio continente dal sapore bohemien. Parigi diventa quindi la palestra migliore per un pittore che sopravvive grazie alle sue opere e che, a stento, porta avanti l'amore per l'arte vissuta a trecentosessanta gradi iniziando, tra l'altro, a scrivere sceneggiature per il cinema.
Nel 1992 torna in Corea dove realizza la sceneggiatura di A painter and a criminal condemmed to death, che l'anno seguente ottiene il riconoscimento dell'Educational Institute of Screenwriting. Trascorsi quasi tre anni il passaggio alla regia è quasi obbligatorio e Kim accetta di cimentarsi nell'impresa pur non avendo mai avuto esperienza di set. Le prime opere Crocodile (1996), Wild animals (1997) e Birdcage Inn(1998), oltre a contenere una matrice espressamente autobiografica, introducono senza indugi al centro della poetica dell'autore che, attraverso sesso, violenza e disperazione, compone un quadro profondamente intimo e personale, ma allo stesso tempo sbalorditivo per un esordiente.
La consacrazione
La quarta opera, L'isola, rappresenta l'apice della prima parte di una promettente carriera. La pellicola, infatti, oltre ad essere presentata a Venezia e al Sundance, condensa quell'idea di cinema basata sull'astrazione e sulla quasi totale assenza di un contesto dominante per le storie messe in scena. L'anno successivo realizza Real fiction primo insuccesso che però porta avanti l'analisi introspettiva, mettendo su pellicola sensazioni e riflessioni di Kim legate all'esperienza nell'esercito. L'insuccesso, inoltre, è attribuibile alla matrice fortemente innovativa e sperimentale che si pone alla base di un opera realizzata in soli duecento minuti grazie all'utilizzo simultaneo di dieci cineprese e di due videocamere digitali.
Address Unknown (2001) e The Coast Guard(2002) ripercorrono, attraverso il racconto di vite diametralmente opposte, la storia della Corea, spingendo l'autore a relazionarsi con la durezza di una realtà pungente e dolorosa. Sempre nel 2001, invece, realizza Bad Guynel quale passato e presente di mescolano e fondono in modo tale da far perdere il concetto stesso di realtà nei meandri della storia.
È il 2003 l'anno della cosiddetta maturità artistica che in Kim trova forma ed espressione in Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, pellicola che si discosta dalla durezza delle precedenti ma che allo stesso tempo contiene un forte equilibrio visivo e narrativo, tanto da consacrare definitivamente il suo autore in tutta Europa.
I premi
L'anno successivo realizza La Samaritana, film che riporta a galla forti tematiche come la prostituzione e che vale l'Orso d'argento a Berlino per la regia.
Autore volitivo e in continua eruzione Kim nello stesso anno porta in scena Ferro 3-La casa vuota, anch'esso energicamente legato alle tematiche giovanili tanto da diventarne in un certo qual modo summa artistica e personale. Il film non tarda ad essere apprezzato ricevendo il Leone d'argento alla Mostra Internazione d'Arte Cinematografica di Venezia nel 2004.
Nei due anni successivi realizza L'arco (2005) e Time (2006), pellicole che in maniera diametralmente opposta analizzano la profondità dell'amore, scandagliandone i fondali fino a toccare aspetti ambigui e pericolasi come la pedofilia. Negli anni successivi si susseguono i film Soffio (2007), Dream (2008) e Amen (2011).
Dopo un periodo di depressione e crisi artistica (raccontato nel film Arirang), Kim Ki-Duk torna alla Mostra del Cinema di Venezia per presentare in Concorso nel 2012 il film Pietà. Tra gli ultimi titoli diretti dal regista troviamo il drammatico One on One (2014), Il prigioniero coreano (2016), presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, e Human, Space, Time and Human (2018).
Il regista è morto l'11 dicembre 2020 per complicanze legate al Covid 19.
È morto Kim Ki-duk, regista sudcoreano di film diventati cult come L'isola e Ferro 3. Vincitore del Leone d'oro a Venezia nel 2012, aveva 59 anni ed è morto per complicazioni legate al Covid19. Il regista è morto in Lettonia, dove si era recato per acquistare una casa nella località marittima di Jurmala. Da alcuni giorni il suo entourage aveva del tutto perso i contatti. Le opere di Kim Ki-Duk si distinguono per la ricorrenza di tematiche ed elementi duri, mostrati allo spettatore in maniera fredda e quasi naturale
Secondo i dizionari, l'apologo è "una favola allegorica con finalità didattiche, di cui possono essere protagonisti uomini, animali o cose inanimate", oppure ancora "una narrazione di carattere allegorico che normalmente si prefigge un fine etico e pedagogico". Tutta la filmografia di Kim Ki-duk ruota intorno al finto apologo, ovvero a offrire racconti apparentemente limpidi e consecutivi, racconti da cui ci si aspetta una certa morale, che poi sottraggono certezze allo spettatore e fanno trionfare le contraddizioni invece di un senso unitario